L'orientamento della preghiera liturgica è uno dei nodi più dibattuti fra gli studiosi della liturgia. Attorno a questo tema entra in gioco uno dei mutamenti più importanti della riforma liturgica, cioè la posizione del sacerdote all'altare versus populum, contestata dai promotori dell'orientamento della preghiera verso Oriente. L'occasione favorevole per un confronto tra le due posizioni è stato il IV Convegno internazionale, svoltosi nel monastero di Bose (Magnano [BI]) dal 1° al 3 giugno 2006 su Lo spazio liturgico e il suo orientamento alla preghiera con la partecipazione di U.M. Lang, autore del saggio: Rivolti al Signore, con prefazione di J. Ratzinger[1]. Il libro si presenta come una strenua difesa dell'orientamento della preghiera verso Oriente, e offre una sintesi completa dell'intera problematica sotto molteplici aspetti (storico, teologico, pastorale) con una ricca bibliografia pur meritevole di qualche riserva. Due questioni ci sembrano degne di particolare analisi: il rapporto della celebrazione versus populum con il Concilio Vaticano II, e la proposta di una revisione sul piano celebrativo. La celebrazione versus populum è stata oggetto della critica più severa con la grave accusa della sua estraneità al Concilio Vaticano II: «La Costituzione del Concilio non parla né di celebrazione versus populum né di edificazione di nuovi altari»[2]. Anzi sarebbe addirittura il frutto delle istruzioni postconciliari[3]. Invece sotto l'aspetto celebrativo la discussione si è attenuata con il rispetto della prassi per la liturgia della Parola ma accogliendo «la proposta di diversi autori che tutta l'assemblea, compreso il celebrante, si rivolga verso il Signore voltandosi verso l'altare e questo sia orientato»[4]. La nostra risposta si muove all'interno della documentazione conciliare, appellandoci tanto per la celebrazione versus populum - maturata e decisa durante lo stesso Concilio -, quanto per la sua attuazione celebrativa secondo il criterio metodologico indicato per la comprensione e la partecipazione rituale dalla stessa Costituzione: «Per ritus et preces» (SC 48). 1. L'altare versus populum e il Concilio In primo luogo sentiamo il dovere di respingere con forza l'accusa, avendo partecipato, come addetto della segreteria della Commissione conciliare, direttamente alla discussione e all'approvazione dell'articolo 128 del capitolo VII sull'Arte sacra e la sacra suppellettile, relativo alla revisione della disciplina del complesso dei luoghi sacri, e in particolare della «forma ed edificazione dell'altare». Lo riportiamo nella sua redazione attuale che corrisponde quasi integralmente - eccetto le parole in corsivo - a quella originale predisposta dalla Commissione preparatoria del Concilio, approvata il 17 giugno 1962: «Si rivedano quanto prima, insieme ai libri liturgici, a norma dell'art. 25, i canoni e le disposizioni ecclesiastiche che riguardano il complesso delle cose esterne attinenti al culto sacro, e specialmente per quanto riguarda la costruzione degna ed appropriata degli edifici sacri, la forma e la erezione (aedificationem) degli altari, la nobiltà e la disposizione e sicurezza del tabernacolo eucaristico, la funzionalità e la dignità del battistero, ecc.». A questo articolo (n. 106, diventato nella discussione conciliare art. 104 e nel capitolo definitivo art. 128) era allegata una declaratio illustrativa delle modalità di revisione compresa la celebrazione della messa versus populum che è all'origine dell'intero dibattito sul problema. Ci troviamo quindi nella fase preconciliare e non postconciliare. «Nel dibattito generale la celebrazione rivolti al popolo è regolare quanto la celebrazione nell'altro senso anzi più regolare, poiché è la forma romana primitiva che ha dato la struttura ai gesti e ai movimenti del celebrante. La Congregazione dei Riti in particolari risposte spesso ha affermato la legittimità di questo uso, descritto in maniera precisa dal Caeremoniale e nel Ritus celebrandi missam»[5]. Può essere illuminante per la nostra analisi il testo del Ritus servandus in celebratione Missae del Messale di Pio V del 1570 conservato fino al periodo precedente il Vaticano II (come nel Missale Romanum, Tornaci 1950) con il duplice accenno a Oriente e all'altare verso il popolo: Par. V. De Oratione, n. 3: «Si altare, sit ad orientem versus populum celebrans versa facie ad populum, non vertit humeros ad altare, cum dicturus est Dominus vobiscum, Orate fratres, Ite missa est ecc.». Si veda anche il Par. 12. De Benedictione in fine Missae. Né è fuori luogo ricordare che, in anni precedenti al concilio, il movimento liturgico aveva indagato su questo settore per adattare le chiese con l'apparato logistico (per esempio aula ecclesiale, altare, ambone, battistero, ecc.) alle esigenze della riforma liturgica. Non a caso la Commissione preparatoria aveva formulato un programma esemplificativo inserendolo in forma di declaratio nel capitolo sull'Arte sacra. Pertanto la declaratio si trova al termine di un percorso pre-conciliare e all'origine dello sviluppo maturato nel Concilio. Il cammino conciliare del nostro articolo con la declaratio inizia propriamente il 12 novembre 1962 mediante cinque interventi dei padri, di cui il primo è quello dei vescovi del Cile che chiesero di tenere presente quanto è detto nella declaratio, a meno che non venga inserita integralmente nel testo della Costituzione[6], e l'ultimo è quello di mons. H. Jenny che ne chiese la distribuzione a tutti i padri e propose l'incorporazione al testo[7]. La sottocommissione su De Arte sacra sotto la presidenza di mons. Carlo Rossi, vescovo di Biella, si riuniva al collegio Leoniano il 26 aprile 1963 per la revisione della relazione sui lavori compiuti. Il capitolo fu accolto con favore unanime dai padri del Concilio: nessun rifiuto; anzi otto padri manifestarono un'esplicita lode. In merito all'articolo 104 si riconobbe che il testo separato dalla declaratio presentava qualche incertezza. Sulla richiesta dei vescovi del Cile e di mons. H. Jenny, la Commissione risponde che il contenuto della declaratio è sufficiente per le indicazioni della Commissione post-conciliare. Nel frattempo viene proposta nella sottocommissione sulla Sacra suppellettile l'unificazione di questo capitolo con quello sull'Arte sacra. La proposta è approvata. Unico presidente della nuova sottocommissione sull'Arte sacra e la sacra suppellettile è nominato mons. Carlo Rossi. Il nuovo capitolo diventa capitolo VII e il nostro articolo passa da 104 a 128. Così, a nome dell'intera Commissione mons. Carlo Rossi il 31 ottobre 1963 era in grado di presentare all'aula conciliare la relazione sull'unificato capitolo VII dell'Arte sacra e la sacra suppellettile al benevolo suffragio dei padri. Al termine della relazione mons. Rossi faceva rilevare a proposito del nostro articolo le difficoltà della sua attuazione, sollevata da non pochi padri che suggerivano la ristampa e la distribuzione della declaratio, e dichiarava: «Infine non pochi padri, per una più retta interpretazione di quanto disposto in alcuni articoli, specialmente sui canoni e gli statuti da rivedere in riferimento all'Arte sacra, hanno chiesto che fossero aggiunte delle determinazioni pratiche. Anche se non spetta al sacrosanto Concilio ecumenico il compito di stabilire i particolari, è sembrato sufficiente dare sommariamente indicazioni sulle quali le commissioni post-conciliari potranno intervenire»[8]. In Appendice al fascicolo, alle pagine 20-21, è pubblicata la declaratio all'articolo 104[9], ora articolo 128. I titoli dei singoli numeri sono in totale quattordici, ma a noi interessano i primi sei, quelli relativi all'aula ecclesiale, le sedi presidenziali, l'altare maggiore, gli altari minori, la consacrazione dell'altare e la custodia eucaristica. Due frasi (provenienti dal n. 3 e dal n. 6) meritano di essere segnalate, perché riassuntive e programmatiche della nostra questione, relative al distacco dell'altare dalla parete nella celebrazione versus populum: «L'altare maggiore, se già distaccato dalla parete per potervi facilmente girare attorno, sia eretto nel mezzo tra il presbiterio e il popolo, cioè nel mezzo dell'assemblea (non geometricamente ma idealmente inteso)». «... è lecito celebrare la messa rivolti al popolo (versus populum), anche in un altare nel quale ci sia il tabernacolo, di piccole dimensioni, ma conveniente». L'assemblea dei padri conciliari su 1941 votanti si espresse: placet 1838, non placet 9, iuxta modum 94 (tutti sull'articolo 130, ma nessuno sull'articolo 128). All'approvazione della Costituzione Sacrosanctum concilium, seguiva la fase di applicazione da parte del nuovo organismo - il Consilium ad exsequendam - costituito da Paolo VI il 29 febbraio 1964 e presieduto dal card. Giacomo Lercaro; assieme al card. Arcadio M. Larraona, prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, controfirmavano in data 26 settembre 1964 l'Istruzione «Inter oecumenici» per la retta applicazione della costituzione liturgica, stabilendo come data per l'entrata in vigore il 7 marzo 1965. Questo documento che passa in rassegna i singoli capitoli e i numeri della Costituzione liturgica nel capitolo V, sotto il titolo L'altare maggiore, al n. 91 dichiara: «È bene che l'altare maggiore sia staccato dalla parete per potervi facilmente girare attorno e per celebrare rivolti verso il popolo (versus populum). Nell'edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converge l'interesse di tutta l'assemblea». Era il passo definitivo del cammino che non si limitava alla semplice proposta di «celebrare rivolti al popolo», ma disponeva tanto l'autonomia dell'altare quanto la sua centralità ideale, tra l'assemblea e il presbiterio. Tre aspetti indivisibili che cambieranno totalmente la posizione tradizionale degli ultimi secoli. Il termine di arrivo ovvero il libro liturgico per eccellenza, il Messale del Vaticano II promulgato da Paolo VI nel 1970, recepiva nella sua Institutio generalis, al n. 262 - oggi diventato n. 299 - la disposizione definitiva: «L'altare sia costruito staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti al popolo: la qualcosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L'altare sia collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l'attenzione dei fedeli». 2. L'applicazione della celebrazione sull'altare versus populum Il cammino della proposta della celebrazione rivolti al popolo o versus populum si conclude con l'approvazione della Costituzione Sacrosanctum concilium a cui segue l'immediata applicazione con l'Istruzione Inter oecumenici del 26 settembre 1964, prima ancora del suo inserimento rituale nel Messale del 1970. È questa la riprova che la proposta non è stata il frutto di un'istruzione post-conciliare ma un'idea addirittura pensata nella fase preparatoria del Concilio, da questo accolta e esaminata nella Commissione conciliare di liturgia, portata a conoscenza dei padri che espressero convinta adesione. All'origine di questo clima favorevole era la stessa esperienza conciliare, la piena valorizzazione dell'altare, il nuovo rapporto tra sacerdote e fedeli, in modo da far apparire un'«assemblea celebrante», con la conseguente attiva e fruttuosa partecipazione. «Lo stesso Concilio si è inserito in questo rinnovamento. Ogni mattina vi si celebrava la messa rivolti vero l'aula conciliare, mentre al Vaticano I il celebrante voltava le spalle ai padri»[10]. A sua volta il teologo liturgista Pierre-Marie Gy ha sottolineato: «La celebrazione rivolta al popolo nella riforma del Vaticano II è stata la conseguenza immediata della messa dialogata e della lingua volgare riconosciuta e legittimata dall'autorità romana a meno di un anno della Costituzione liturgica e mentre il Concilio era ancora in corso»[11]. Un anno prima dell'apertura del Concilio il grande maestro Josef Andreas Jungmann a proposito della riscoperta del valore pastorale dell'altare osservava: «Una caratteristica che distingue l'altare maggiore è data dal fatto che esso sta nello spazio di una comunità celebrante. L'altare deve essere ben visibile da tutti. E tuttavia non deve essere neppure su un palcoscenico... infatti le persone raccolte intorno ad esso non sono semplici spettatori»[12]. Si comprende l'attenzione all'Istruzione Inter oecumenici in particolare al capitolo V, dedicato in buona parte alla costruzione e all'adattamento dell'altare, facilitandone la partecipazione attiva e fruttuosa dei fedeli. Nello stesso anno 1964 veniva pubblicato il testo e il commento, a cura di Carlo Braga, direttore di «Ephemerides liturgicae»[13], e l'anno seguente usciva in edizione riveduta il commento di Pierre Jounel per il n. 60 de «La Maison-Dieu». Citando quest'ultima edizione italiana, non possiamo non rilevare la riflessione sull'autonomia e la dignità dell'altare, la posizione verso il popolo, al centro dell'attenzione dell'assemblea, senza dimenticare la materia, le dimensioni, ecc.[14]. Anche nei convegni di pastorale liturgica l'argomento dell'altare viene trattato nella ricchezza del suo significato, rituale, teologico, nella dimensione comunitaria come luogo di celebrazione con il richiamo al suo proprium di segni di pane e di vino[15]. Ovviamente non viene trascurata la novità della celebrazione versus populum, ma non è questo l'elemento specifico né tantomeno è dimenticato il suo carattere specifico di simbolo di Cristo attorno al quale si raccoglie l'assemblea[16]. A distanza di quarant'anni il problema dell'altare versus populum è venuto a trovarsi sotto accusa non solo come estraneo al Concilio - a cui abbiamo risposto - ma in aperto conflitto con l'orientamento della preghiera verso Oriente, che dovrebbe avere la preminenza almeno nella liturgia eucaristica, in particolare nel Canone, riservando la posizione versus populum alla liturgia della Parola. Non è questo il momento per confermare quanto a suo tempo abbiamo documentato, che la questione dell'orientamento verso Oriente «non interessa direttamente la tradizione romana - anche se in quella occidentale si riscontra l'influsso orientale - e perciò ogni critica alla riforma liturgica è senza fondamento storico, frutto piuttosto di pregiudizio anti-conciliare»[17]. Non è senza significato il silenzio totale del Concilio sulla questione dell'orientamento. La proposta di rivolgersi tutti insieme in preghiera verso Oriente, all'inizio della preghiera eucaristica, ci appare doppiamente inaccettabile, partendo dalla stessa celebrazione per la salvaguardia della funzione dell'altare e la fedeltà al citato criterio interpretativo «per ritus et preces». Lo spostamento del sacerdote comporta automaticamente l'occultamento dell'altare che sfugge alla vista dei fedeli perdendo la sua centralità sia come luogo d'incontro del sacerdote con i fedeli sia come mensa eucaristica con i segni di pane e vino, che richiamano i gesti dell'ultima cena compiuti oggi dal sacerdote e che restano totalmente invisibili. Una situazione intollerabile che umilia la riforma e rimanda a quella precedente ma peggiorata, perché tutto è compiuto a voce alta e nella lingua parlata dal sacerdote che volta le spalle all'assemblea mortificando la partecipazione visiva. D'altra parte l'esperienza quarantennale non può essere limitata soltanto alla liturgia della Parola senza provocare effetti devastanti nella pratica liturgica e pastorale[18]. Lo stesso card. Karl Lehmann si è espresso: «La celebrazione eucaristica versus populum è oggi, a lungo andare, irrinunciabile nella messa parrocchiale»[19]. 3. Conclusione Determinante per la soluzione del nostro problema sembra il ricorso a quello che fin dall'inizio abbiamo indicato come il principio teologico contenuto nella frase «per ritus et preces». Il principio non è sfuggito ai commentatori della Costituzione liturgica tanto da essere dichiarato di «innegabile portata storica»[20] e non altrettanto nota ci risulta la sua applicazione. Riassumiamo i dati essenziali per verificarne poi l'attuazione. Durante la discussione conciliare sul mistero eucaristico nell'ottobre 1962, relativo al testo dell'articolo 48 della Sacrosanctum concilium: «Perciò la Chiesa si preoccupa che i fedeli non assistano come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede ma che, comprendendo bene i riti e le preghiere, ad essi partecipino ecc.», il card. Agostino Bea propose di aggiungere a «dopo i riti e le preghiere» questa frase: atque mysterium quod per ea exprimitur. La sottocommissione VII circa il capitolo II della Costituzione, presieduta da mons. Enciso Diana, osservò che non era necessario ripetere la parola mysterium appena citata; d'altra parte se i fedeli comprendono i riti e le preghiere, comprenderanno anche quello che per mezzo di essi viene espresso. Ma nel frattempo la sottocommissione teologica incaricata di esaminare il capitolo II espresse un giudizio molto favorevole e propose di specificare che i riti e le preghiere sono il mezzo per comprendere il mistero, dicendo «ut illud per ritus et preces bene intellegentes». La correzione fu accettata dalla citata sottocommissione che presentò il nuovo testo alla Commissione conciliare. La Commissione conciliare giudicò ottima la proposta ma - commentò -: «Per meglio specificare che i riti e le preghiere sono da ritenersi il mezzo per comprendere il mistero, abbiamo scritto per ritus et preces id bene intellegentes»[21]. La Commissione non ha, quindi, modificato il pensiero del grande biblista ma lo ha accolto e chiarito sottolineando come i riti e le preghiere non hanno un semplice valore di comprensione verbale, ma anche quello di contenere ed esprimere il mistero di salvezza celebrato. Ecco il principio che ci offre la soluzione nel momento più delicato della celebrazione eucaristica, non un orientamento esterno dal significato sia pure importante, ma l'atteggiamento che tutti i fedeli sono chiamati ad assumere di fronte al mistero celebrato come emerge dalla comprensione dei riti e delle preghiere. Sono i riti e le preghiere che esprimono o che rivelano la realtà sacramentale. In questo caso è la stessa preghiera eucaristica e in particolare il Canone romano, nei suoi elementi rituali e nelle sue espressioni di preghiera, a delineare il comportamento coerente e corretto, l'unanime invocazione di tutta l'assemblea al Padre che sta nei cieli. Infatti alla fine dell'orazione sulle offerte, il sacerdote rivolge il saluto ai fedeli, quindi alzando le braccia, prosegue dicendo in latino: Sursum corda («In alto i cuori»); il popolo risponde: Habemus ad Dominum (Sono rivolti al Signore»); con le braccia allargate il sacerdote aggiunge: Rendiamo grazie al Signore nostro Dio, ecc. L'espressione ad Dominum è la risposta all'invito di rivolgere in alto (sursum) i cuori. In questo dialogo, sursum («in alto») significa ad Dominum. Ne segue che per rivolgersi al Signore, bisogna rivolgersi vero l'alto: i fedeli, dunque, sono con il cuore rivolto verso il cielo, non verso Oriente. Si deve ricordare che questo dialogo iniziale è identico in tutte le famiglie liturgiche dell'Oriente e dell'Occidente, ed è attestato da sempre. Appartiene quindi alla tradizione quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. Siamo bene informati dalla storia che al Sursum corda, il popolo si alzava, tutti insieme, ed elevava le braccia in alto, al pari dell'orante delle catacombe. Il testo latino accenna al popolo presente con la parola circumstantium, ovvero ad stantium (quindi attorno all'altare e non semplicemente presenti com'è stato tradotto). Quindi secondo il Canone romano i fedeli sono attorno all'altare che è al centro della loro attenzione: essi sono rivolti all'altare e non c'è alcun testo che affermi che l'altare è rivolto a Oriente. In conclusione, la posizione dei fedeli è in piedi, con le mani alzate, rivolti verso l'altare, e con gli occhi al cielo, come Gesù secondo il racconto della cena. Terminato il Canone dopo l'elevazione e la dossologia finale, tutti con lo sguardo in alto proclamano: «Padre nostro, che sei nei cieli». Ecco il principio teologico e liturgico insieme, che unisce indissolubilmente il sacerdote e il popolo fedele senza intermediari né simboli, croce compresa. La preghiera rivolta al Padre con lo sguardo e le mani alzate è netta e costante nella storia del Canone romano. Se Cristo ritornerà venendo dall'Oriente o dall'Occidente o dal Mezzogiorno poco importa. Certo egli verrà per condurci tutti in alto! ».
Rinaldo Falsini Il padre Ferdinando Antonelli, poi cardinale, lo volle infatti nella segreteria della Commissione conciliare per la Liturgia, con l’incarico di stendere i verbali e di ordinarli negli archivi delle sedute plenarie. Da questa posizione padre Falsini seguì dal di dentro l’elaborazione della costituzione «Sacrosanctum Concilium».
[1] U.M. Lang, Rivolti al Signore, l'orientamento nella preghiera liturgica, pref. J. Ratzinger, Cantagalli, Siena 2006 (or. ingl. 2004). [2] Ibid., p. 17. [3] Ibid., p. 7. [4] Ibid., p. 89. [5] A.G. MartimorT, La réserve eucharistique, in «La Maison-Dieu» 51 (1957) 143-144. [6] Animadversiones in Schema, cap. 7, De Arte sacra, p. 38. [7] Ibid., p. 42. [8] Emendationes XI, cap. 6 e 8, 1963, 9. [9] Modi V, De Arte sacra deque sacra Suppellectile, 1963, p. 15. [10] P. Jounel, Commento all'istruzione del 26 settembre 1964 per l'applicazione della Costituzione liturgica, Desclée, Roma 1966, p. 141. [11] P.-M. Gy, L'esprit de la liturgie du card. Ratzinger, est-il fidèle au concile, ou en réaction contre, in «La Maison-Dieu» 229 (2002) 175. Il prof. Lang a p. 100 del suo volume, nota 15, parla di questo articolo come di «un attacco assolutamente personale» al libro di Ratzinger - la cui risposta è stata pubblicata nel numero seguente di «La Maison-Dieu» 230 (2002) 114-120 - mentre a p. 116, nota 18, lo stesso Lang precisa che «i commenti di P. Gy - cioè il citato articolo - sono fuorvianti». Posso testimoniare, anche se parte in causa, che il rigore scientifico di P.-M. Gy resta immutato anche nell'articolo, deciso ma solido. [12] J.A. Jungmann, in G. Boselli (ed.), L'altare mistero di presenza, opera dell'arte, Qiqayon, Magnano (BI) 2005, p. 128. [13] C. Braga, Instructio ad exsequendam Constitutionem de sacra liturgia cum commentario, CLV-Ed. Liturgiche, Roma 1964. [14] Jounel, Commento all'istruzione, cit., pp. 140-145. [15] L. Gherardi, Il luogo della custodia eucaristica, in F. Antonelli (ed.), Il culto eucaristico nel rinnovamento liturgico. Atti del IX Convegno liturgico-pastorale, Roma 7-10 febbraio 1966, Ed. OR, Milano 1966, pp. 105-122; P. Garlato, Altare e tabernacolo nelle nuove esigenze, in Il mistero eucaristico, Cal, Padova 1968, pp. 145-163. [16] P. De Clerck, Il significato dell'altare nei rituali della dedicazione dell'altare, in Boselli (ed.), L'altare, cit., pp. 39-51. [17] R. Falsini, L'orientamento nelle chiese, altare e preghiera, in «Vita Pastorale» 5 (2001) 50-51. Il libro di U.M. Lang si muove nella linea tracciata a suo tempo dal card. J. Ratzinger a partire dalla sua prefazione del 1993 al saggio - completandolo e arricchendolo - di K. Gamber, Tournés vers le Seigneur (ed. Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993) e successivamente fino al suo volume: Introduzione allo spirito della liturgia (San Paolo, Cinisello B. 2001). Tutte le basiliche romane hanno l'altare che consente la celebrazione verso il popolo e su 50 chiese - secondo le ricerche di C. Vogel, Versus orientem, in «La Maison-Dieu» 70 (1962) 67-97 - ben 30 non sono orientate, ovvero hanno l'abside verso l'Occidente. Su tutte spicca la Basilica di San Pietro. [18] S. Dianich, La posizione del prete all'altare, in «Vita Pastorale» 7 (2006) 76-77. [19] K. Lehmann, Geschichte zwischen Bauen und Bewahren - vom Geist kirchlicher Denkmalpflege, in Inventarisation von Denkmälern und Kunstgütern als kirchliche Aufgabe, Sekretariat der Deutschen Bischofskonferenz, Bonn 1991, p. 15 citato in Boselli (ed.), L'altare, cit., p. 132. [20] E. Mazza, Le odierne preghiere eucaristiche, vol. I Struttura, teologia, fonti, EDB, Bologna 1991, pp. 9-10. [21] Emendationes VI, cap. II, 1963, p. 13.
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