Una delle espressioni più pregnanti dell'intero corpo epistolare di Paolo è certamente quella che ricorre in Efesini, 4, 20: "Ma voi non così avete imparato Cristo". Talmente pregnante che la Bibbia della Conferenza episcopale italiana, per esempio, si è sentita in dovere di tradurre: "Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo". Certo, si tratta anche di "conoscere", ma forse questa traduzione non rende, anzi stempera, la pregnanza del termine scelto da Paolo. Considerando il contesto immediato nelle sue principali articolazioni mi pare di capire che Paolo sviluppa il suo pensiero in tre momenti. "Non così" rimanda ai versetti precedenti nei quali Paolo stigmatizza un certo comportamento che non esita a qualificare come "pagano" (4, 17-19) cioè assolutamente incompatibile con la novità portata da Cristo nella storia degli uomini e quindi nella vita dei credenti. Probabilmente qui si allude all'idea classica delle due vie, che troviamo anche nel Salmo 1, ma certamente Paolo opera una trasposizione ed enuncia il contrasto tra l'antica esistenza e la nuova. Si intravedono già le grandi linee del suo metodo educativo. Tale atteggiamento, detto appunto pagano, si qualifica per le seguenti note: leggerezza nel modo di valutare le situazioni della vita, cecità nei pensieri, estraneità alla vita di Dio come conseguenza dell'ignoranza nelle cose di Dio, la "cardioporosi" (che corrisponde alla "sclerocaerdia" di Matteo, 19, 8) ovvero una durezza del cuore tale da diventare impermeabili a qualunque sentimento di compassione e di misericordia. Ancora: insensibilità spirituale che implica noncuranza di ciò che attiene alla sfera dello spirito e quindi cedimento a ogni forma di dissolutezza, di impurità e di empietà, oltre che resa a quella bestia insaziabile che è l'avarizia. Di fronte a tutto ciò Paolo si pone a occhi aperti e prende atto della situazione quasi disperata di una umanità che vive senza Dio e perciò senza speranza in questo mondo (vedi Efesini, 2, 12). Anche per loro vale il grave interrogativo che un tempo Paolo poneva a se stesso: "Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Romani, 7, 24). Le due dimensioni, individuale e collettiva, si intrecciano nell'animo di Paolo e ambedue interpellano il suo metodo pedagogico. Tornando alla condotta morale degli efesini, sembra di rileggere quella pagina della lettera dello stesso apostolo ai cristiani di Roma nella quale si elencano vizi altrettanto gravi e detestabili: empietà che spegne la pietas, ingiustizia che soffoca la verità, impurità che ottenebra la mente e appesantisce il cuore, stoltezza che si oppone alla sapienza, menzogna, idolatria, passionalità, depravazione, malvagità, cupidigia, malizia, invidia, rivalità, frodi, malignità, diffamazione, insensatezza, slealtà, spietatezza, incapacità di ogni giudizio etico (1, 18-32). Vizi che rendono l'uomo, ogni uomo inescusabile dinanzi a Dio così che Dio stesso non può non abbandonarli al loro destino. Nella sua veste di educatore, Paolo deve farsi carico di questa precisa situazione: non può né vuole eluderla. È a questa umanità che egli si sente inviato.