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Sinodo per l'Africa (4-25 Ottobre 2009)

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2009 10:25
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08/10/2009 10:20

Una delegazione di Padri sinodali in visita in Campidoglio

ROMA, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

Una delegazione del Sinodo dei Vescovi per l’Africa si è recata questo mercoledì mattina in Campidoglio per un incontro con il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.

Al centro del confronto, temi come la cooperazione allo sviluppo, gli OGM, la regolamentazione dei flussi migratori e l'accoglienza dei rifugiati politici.Si è parlato anche della grande manifestazione dal titolo “Africa: quale partnership per la riconciliazione, la giustizia e la pace?”, organizzata dal Comune di Roma e in calendario per il prossimo 19 ottobre.

La delegazione era composta dal Cardinale Francis Arinze, Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; dal Cardinale Théodore-Adrien Sarr, Arcivescovo di Dakar; dal Cardinale Wilfrid Fox Napier, Arcivescovo di Durban; dal Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, Arcivescovo di Cape Coast; dal Vescovo di Sarh, mons. Edmond Djitangar e dall'Arcivescovo di Luanda, mons. Damião António Franklin.

Il gruppo di presuli, guidati dal Segretario generale del Sinodo dei Vescovi, mons. Nikola Eterović, prima d’incontrare il Sindaco Alemanno nel suo studio privato, si è raccolto in preghiera nella Basilica di Santa Maria in Ara Coeli.

Il Cardinale Arinze, ricordando la vocazione di Roma all'universalità, ha sottolineato che “nel mondo globale nessun popolo può vivere da solo e l'interdipendenza deve diventare solidarietà” aggiungendo poi che “tutto il mondo deve cercare, sotto l'ombrello della solidarietà, le soluzioni giuste nel nome della giustizia, della riconciliazione e della pace”.

Il Sindaco, da parte sua, ha affermato: “Abbiamo sottolineato che la città di Roma segue con grande attenzione il Sinodo per l'Africa, perché da questo Sinodo ci aspettiamo dei messaggi chiari per rilanciare la cooperazione e lo sviluppo fra l’Europa e l’Africa".

"Questo per due obiettivi: il primo è quello di fare in modo che ci sia uno sviluppo equilibrato di questo continente e che esso esca definitivamente fuori dal sottosviluppo", ha detto.

"Il secondo - ha aggiunto - riguarda la possibile regolazione dei flussi migratori, in maniera tale che ogni persona possa scegliere se vivere nel proprio Paese o emigrare in Europa secondo dei flussi legali e regolari che devono essere aiutati proprio in alternativa all’immigrazione irregolare”.

Sulle questioni africane, stampa italiana troppo provinciale

Incontro dell'Osservatorio sul Sinodo africano promosso dalla CIMI e dall'UCSI Lazio



ROMA, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
“È urgente combattere il provincialismo della stampa italiana nei confronti dell'Africa”. E' l'appello lanciato questo martedì dal missionario comboniano padre Alex Zanotelli, durante un incontro dell'Osservatorio sul Sinodo Africano promosso dalla CIMI, la Conferenza degli Istituti Missionari e dall'UCSI Lazio.
Parlando a Roma, presso la libreria AVE in via della Conciliazione, padre Zanotelli e padre Fernando Zolli, missionario comboniano rappresentante della CIMI hanno sottolineato l'importanza di portare fuori dalle sale vaticane le istanze e i temi del Sinodo, così che i mezzi di comunicazione possano trattare e conoscere con più attenzione i problemi dell'Africa di oggi.

Ad intervenire per primo è stato padre Rocco Puopolo, missionario saveriano di origini italiane, direttore esecutivo di Africa Faith & Justice Network, che attualmente vive negli Stati Uniti.

Tema trattato, quello della cosiddetta “giustizia ristorativa” che, secondo Puopolo, “viene solo accennato nell'Instrumentum Laboris ma va spiegato meglio perché si lega profondamente al tema sinodale della Riconciliazione, che in Africa si sta realizzando, seppur con lentezza, tra etnie diverse”. “In Sierra Leone – ha aggiunto – si seguiva questa strada già nel 1996 e si trattava, allora come oggi, di proporre un modo diverso di fare giustizia, senza l'uso della violenza o della polizia”.

“Il problema – ha sottolineato il missionario – è che questo processo non ha visibilità in Africa, mentre sono tanti i casi in cui, in diretto contatto con il tribunale dell'AIA, i governi africani tentano di modificare le condanne di alcuni criminali di guerra a favore di un rientro in patria finalizzato al recupero della persona e alla riconciliazione popolare”.

Un progetto ampio in cui rientra anche la Chiesa e che in più lavora sul recupero dei bambini soldato, sia africani che emigrati negli Stati Uniti. “A volte ho visto la Chiesa Cattolica negli USA – precisa Puopolo – rifiutare questi bambini, spingendoli verso altre chiese locali, quindi è opportuno lavorare sulla continuità lavorativa della Chiesa anche lontano dall'Africa”.

Al secondo ospite, suor Elisa Kidanè, Consigliera generale delle missionarie comboniane, è stato invece affidato il compito di portare la sua testimonianza come donna invitata al Sinodo in qualità di esperta.

“Siamo solo al secondo giorno di lavori – ha spiegato la Kidanè – e come esperti abbiamo il dovere di ascoltare e solo in seguito portare le nostre riflessioni”. “Sappiamo bene che la situazione delle donne in Africa è ben diversa dalle colleghe europee ma se useremo bene le nostre armi, cioè dolcezza, fermezza e resistenza, con il tempo otterremo dei risultati”, ha poi continuato.

Suor Kidanè ha ricordato inoltre come il Sinodo dei Vescovi può essere l'occasione giusta per mettere in luce, senza sentimenti di rivalsa, la condizione di ristrettezza operativa delle donne nella Chiesa moderna, ancora infatti lontane dai luoghi dove si legifera e si decide il futuro del Continente africano.

La chiusura della giornata è stata affidata invece ad un rappresentante laico proveniente dallo Zambia, il dott. Munshya Chibilo, della comunità Papa Giovanni XXIII, presente al Sinodo in qualità di uditore, che ha affrontato la questione della violenza in Africa e dei continui conflitti bellici in atto tra le popolazioni. “La conflittualità – ha affermato Chibilo – non è un problema, almeno fino a quando la si può controllare. Se ciò non avviene, bisogna lavorare attraverso degli step ben precisi”.

A suo avviso occorre innanzitutto “analizzare bene il problema e capire da cosa nasce lo scontro” e poi “diminuire la tensione pianificando dei progetti di riconciliazione che mirano ad anticipare le intenzioni dei gruppi che hanno creato il conflitto”.

Infine, ha sottolineato, è necessario “non sottovalutare l'apparente tranquillità ottenuta, monitorare la situazione e tenere a bada i signori della guerra”. “In Africa le persone di diverse etnie convivono bene – ha tenuto a precisare – ma il lavaggio del cervello dei politici locali porta spesso le persone coinvolte nelle guerre a non sapere spiegare il motivo di tanto odio”.

“La Chiesa deve assumersi, come parte politicamente disinteressata, la responsabilità di partecipare attivamente al processo di pace tra i popoli africani”, ha concluso infine.


Il prossimo appuntamento dell'Osservatorio è fissato per venerdì 9 ottobre, alle ore 19, presso la Curia generalizia dei missionari della Consolata in via della Mura Aurelie n 11, a Roma.
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08/10/2009 10:21

Sinodo dei vescovi per l'Africa: i lavori della quarta e quinta congregazione generale (6-7 ottobre 2009)

Prima parte
Seconda parte
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Intervista con Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, Vescovo di Tabuda, Libia

Sul dramma degli immigrati africani, che riguarda oltre dieci milioni di persone, ieri al Sinodo è intervenuto mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di Tabuda e vicario apostolico di Tripoli, in Libia. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

R. – Noi siamo testimoni di una presenza di immigrati che vengono da tutte le parti dell’Africa. Non voglio entrare in merito ai respingimenti, ma ho sottolineato più volte l’importanza di non rifiutarli, di assisterli almeno in Libia, perché rigettarli e disinteressarsi di loro è contro i diritti dell’uomo ed è anche contro la nostra civiltà umana, cristiana o quello che sia.

D. – Qual è l’azione di soccorso della Chiesa in Libia verso queste persone?

R. – Noi, nel nostro piccolo, in Libia, cerchiamo di seguire questa massa di gente nei centri di raccolta, dove i libici danno possibilità di incontrarla, di visitarla, di assisterla spiritualmente e pastoralmente. Lo facciamo per i cristiani, ma anche per tutti gli altri, e ce ne sono tanti. Noi cerchiamo di assisterli sul piano materiale, offrendo da mangiare. Abbiamo assistito persone, portando coperte e vestiti, e le abbiamo assistite soprattutto sul piano medico. Settimanalmente le nostre suore si interessano di tante donne gestanti e devono, quindi, essere accompagnate all’ospedale. Non hanno documenti e la suora offre il proprio passaporto, si prende cura di loro, cercando di assisterle, affinché possano dare alla luce i loro bambini. Hanno attraversato il deserto e sono persone veramente povere. Mi riferisco in particolare a questa massa di eritrei che arriva in Libia, decisa a non ritornare nel proprio Paese, ma piuttosto ad essere accolta in Occidente.

D. – Quante delle persone respinte, da quello che lei ha potuto conoscere e sapere, sono richiedenti asilo?

R. – Non sono in grado di capire se tutta questa gente ha diritto di avere asilo politico o meno. Io non guardo in faccia le persone. Vedo che hanno bisogno di mangiare, hanno bisogno di essere curate. Non vedo se hanno diritto o non hanno diritto. Io vedo gente che ha bisogno. Non domandiamo niente: hanno bisogno e quindi diamo. Se c’è qualcuno che riusciamo a capire che vuole ritornare al proprio Paese, lo accompagniamo agli uffici competenti. Accompagniamo le altre persone all’ufficio delle Nazioni Unite per avere una carta delle Nazioni Unite, la carta di rifugiato, che è un documento di identità, che come ben si sa non è riconosciuto dalla Libia. Questo forse potrebbe essere un appello: facciamo in modo che abbiano un documento che sia riconosciuto, accettato anche dalle autorità libiche. Allora, mi domando, come fare, perché questa gente possa avere un documento per farsi valere nella propria identità.

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Entra nel vivo il Sinodo dei vescovi per l'Africa: al centro di lavori oggi la teoria del genere e i bambini come costruttori di pace

La teoria del genere, il ruolo dei bambini come costruttori di pace, l’importanza della comunicazione della Chiesa per favorire la riconciliazione: questi i temi principali emersi oggi pomeriggio dall’Aula del Sinodo dei Vescovi. I presuli sono riuniti in Vaticano per la seconda Assemblea Speciale dedicata all’Africa e incentrata sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. Il servizio di Isabella Piro:

Sul dramma degli immigrati africani, che come abbiamo detto riguarda oltre dieci milioni di persone, ieri al Sinodo è intervenuto mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di Tabuda e vicario apostolico di Tripoli, in Libia. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

. – Noi siamo testimoni di una presenza di immigrati che vengono da tutte le parti dell’Africa. Non voglio entrare in merito ai respingimenti, ma ho sottolineato più volte l’importanza di non rifiutarli, di assisterli almeno in Libia, perché rigettarli e disinteressarsi di loro è contro i diritti dell’uomo ed è anche contro la nostra civiltà umana, cristiana o quello che sia.


D. – Qual è l’azione di soccorso della Chiesa in Libia verso queste persone?


R. – Noi, nel nostro piccolo, in Libia, cerchiamo di seguire questa massa di gente nei centri di raccolta, dove i libici danno possibilità di incontrarla, di visitarla, di assisterla spiritualmente e pastoralmente. Lo facciamo per i cristiani, ma anche per tutti gli altri, e ce ne sono tanti. Noi cerchiamo di assisterli sul piano materiale, offrendo da mangiare. Abbiamo assistito persone, portando coperte e vestiti, e le abbiamo assistite soprattutto sul piano medico. Settimanalmente le nostre suore si interessano di tante donne gestanti e devono, quindi, essere accompagnate all’ospedale. Non hanno documenti e la suora offre il proprio passaporto, si prende cura di loro, cercando di assisterle, affinché possano dare alla luce i loro bambini. Hanno attraversato il deserto e sono persone veramente povere. Mi riferisco in particolare a questa massa di eritrei che arriva in Libia, decisa a non ritornare nel proprio Paese, ma piuttosto ad essere accolta in Occidente.


D. – Quante delle persone respinte, da quello che lei ha potuto conoscere e sapere, sono richiedenti asilo?


R. – Non sono in grado di capire se tutta questa gente ha diritto di avere asilo politico o meno. Io non guardo in faccia le persone. Vedo che hanno bisogno di mangiare, hanno bisogno di essere curate. Non vedo se hanno diritto o non hanno diritto. Io vedo gente che ha bisogno. Non domandiamo niente: hanno bisogno e quindi diamo. Se c’è qualcuno che riusciamo a capire che vuole ritornare al proprio Paese, lo accompagniamo agli uffici competenti. Accompagniamo le altre persone all’ufficio delle Nazioni Unite per avere una carta delle Nazioni Unite, la carta di rifugiato, che è un documento di identità, che come ben si sa non è riconosciuto dalla Libia. Questo forse potrebbe essere un appello: facciamo in modo che abbiano un documento che sia riconosciuto, accettato anche dalle autorità libiche. Allora, mi domando, come fare, perché questa gente possa avere un documento per farsi valere nella propria identità

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Sinodo per l'Africa: più spazio alle donne. L'arcivescovo di Accra: la sfida delle sette

Mattinata densa di riflessioni, oggi, al secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano, sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. In presenza di Benedetto XVI, i Padri Sinodali hanno concentrato la loro attenzione sull’importanza dell’educazione, sul bisogno di pace nella Regione dei Grandi Laghi e sull’Anno Sacerdotale. In chiusura di Congregazione, poi, spazio anche ad alcuni uditori. In programma per oggi pomeriggio, invece, l’intervento di Rudolf Adada, già Capo dell’Unione Africana delle missioni di pace per il Darfour. Il servizio di Isabella Piro:


È sopravvissuta al massacro del Rwanda, ha perdonato i suoi aggressori ed oggi porta la riconciliazione nelle prigioni. La testimonianza di un’uditrice ha fatto tremare l’Aula del Sinodo, stamani. Davanti alla prova concreta che la pace è possibile anche nei contesti più atroci, le sue parole hanno lasciato tutti senza fiato.

Ma sono state tante le riflessioni che si sono rincorse durante i lavori di oggi e tanti anche i suggerimenti arrivati dai Padri Sinodali. Innanzitutto, il grande tema dell’educazione: i vescovi auspicano un sistema di gestione scolastica che garantisca la libertà della Chiesa per una formazione di qualità dei giovani, sollecitando quindi un partenariato diretto tra l’Unesco e le istituzioni ecclesiastiche. E ancora, il Sinodo pensa alla creazione, in Africa, di un Istituto superiore cattolico, specializzato nell’insegnamento sociale, a partire dalla Dottrina Sociale della Chiesa.

Nella riflessione dei Padri Sinodali, spazio anche alla comunicazione e all’informazione, con l’esigenza, emersa in Aula, di dare vita ad un’agenzia di stampa continentale per la Chiesa in Africa, continente in cui, tra l’altro, sono operative almeno 163 radio in 32 Paesi, gestite da diocesi ed organizzazioni cattoliche.

Poi, i presuli si sono soffermati sul significato dell’Anno Sacerdotale, indetto da Benedetto XVI per commemorare i 150 anni dalla morte del Santo Curato d'Ars, colui che può ispirare quella fedeltà a Cristo che aiuta ad illuminare le possibili zone d’’ombra delle comunità ecclesiali.

E ancora, i vescovi hanno riflettuto sui problemi relativi all’aborto che, nel linguaggio definito “sconcertante” delle organizzazioni internazionali, viene erroneamente associato alla salute riproduttiva. Centrale anche il tema del dialogo interreligioso con la proposta, avanzata in Aula, di inserire alcuni esperti del settore nelle Commissioni Giustizia e Pace. Altro suggerimento applaudito, quello di convocare prossimamente una Conferenza Internazionale sulla pace e la riconciliazione nella Regione dei Grandi Laghi.

Poi, spazio alle donne: “Cosa sarebbe la Chiesa senza di loro?”, si è detto in Aula. Loro che donano la vita e non abbandonano mai i propri figli auspicano un maggior coinvolgimento nell’evangelizzazione.

Quindi, la parola è andata ad uno dei delegati fraterni, Bernhard Ntahoturi, arcivescovo della provincia della Chiesa anglicana del Burundi, che ha sottolineato l’importanza dell’ecumenismo per rivelare al mondo il Dio dell’amore e della vita. L’Africa è il continente delle opportunità, ha continuato il delegato fraterno, e la Chiesa deve essere segnata dalla fraternità, per liberare il Paese dai suoi mali.

Ieri pomeriggio, invece, il Sinodo ha volto il suo sguardo verso le donne africane costrette alla poligamia e quindi lontane dai sacramenti. Per loro, è stata chiesta una riflessione approfondita, così che possano godere della misericordia di Dio.

E ancora, in Aula si è detto che la Chiesa non dimentica i malati di Aids, anzi: li aiuta e li sostiene, attraverso alcune agenzie, come il Cafod (Catholic Agency For Overseas Development), da più di vent’anni presente in Africa. Molti i risultati positivi ottenuti finora, anche grazie all’aiuto dei farmaci retrovirali che, però, hanno sottolineato i vescovi, restano ancora inaccessibili ai più poveri.

Ampio spazio al Sinodo dei vescovi è stato dedicato alla sfida posta alla Chiesa africana dalla diffusione tra i giovani dei gruppi neo-pentecostali. Un problema presente in Ghana dove la comunità cattolica, nata meno di 150 anni fa, svolge un ruolo di primaria importanza a livello sociale, educativo e sanitario. Nel Paese il processo di inculturazione deve fare i conti con un diffuso sincretismo religioso: infatti, nonostante il cristianesimo sia la religione maggiormente professata, buona parte della popolazione resta legata alle tradizionali forme di spiritualità. Lo conferma l’arcivescovo di Accra in Ghana, mons. Gabriel Charles Palmer Buckle intervistato dal nostro inviato al Sinodo Paolo Ondarza:

R. – In Ghana il cattolicesimo è arrivato appena 129 anni fa. I cattolici, nel Ghana, sono più o meno il 16 per cento della popolazione; è il gruppo religioso più grande. Come Chiesa abbiamo più del 20-21 per cento di tutti i centri sanitari del Paese e più del 15 per cento delle scuole di tutto il Ghana è gestito dalla Chiesa cattolica.

D. – Lei diceva che è una realtà tutto sommato giovane, la Chiesa si è radicata in un terreno che, da un punto di vista anche religioso aveva delle altre tradizioni ed ecco che si presenta quindi il rischio di un sincretismo religioso

R. – Certamente. L’otto per cento della popolazione è ancora adesso aderente a queste religioni ancestrali. E’ compito nostro – particolarmente in quest’era in cui parliamo dell’inculturazione – capire la differenza tra una cultura religiosa che magari agisce contrariamente al cattolicesimo, al cristianesimo, e una cultura religiosa che si presenta più come una cultura sociale che può aiutare l’inculturazione stessa.

D. – In Ghana sono presenti le comunità pentecostali, di cui si è parlato anche qui al Sinodo. In particolare, si è evidenziato il fatto che queste comunità facciano presa soprattutto tra i giovani

R. – Devo dire che questa è una preoccupazione abbastanza grande. L’Africa è molto giovane, più del 65 per cento della popolazione è al di sotto dei 35 anni. Dobbiamo ammettere che le sette, le chiese cosiddette pentecostali utilizzano molto i mass media, la televisione ed internet per offrire un messaggio diciamo religioso, pseudo-cristiano, una sorta di cristianesimo sentimentale. E allora quando al giovane viene chiesto di fare delle scelte forti, per il cattolicesimo in particolare c’è a volte qualche difficoltà e per questo abbiamo bisogno della pastorale d’accompagnamento. Già il 23 per cento del Paese si dice aderente a queste sette pentecostali e parecchi di questi aderenti sono cattolici che si sono allontanati dalla fede. La verità è che dopo qualche tempo – cinque o dieci anni – si accorgono che quello che viene offerto lì è fasullo e ritornano quindi alla Chiesa cattolica. Nel frattempo, però, sono stati fatti danni allo spirito. E’ una sfida ma siamo pronti ad affrontarla.

D. – In che modo questo Sinodo può accompagnare e guidare la vita della sua Chiesa?

R. – E’ la mia prima esperienza. E’ tutta la Chiesa universale ad essere riunita in ascolto, in preghiera sull’Africa e quest’Africa ha una potenzialità enorme. Basta vedere ad esempio le vocazioni che provengono dall’Africa o anche quanti cattolici che provengono dall’Africa siano all’altezza della vita politica. C’è perciò una potenzialità enorme e certamente – come diceva il Santo Padre – ci sono anche delle sfide. Tutta la Chiesa si preoccupa di vedere ed indagare in quale direzione lo Spirito Santo vuole che la stessa Chiesa cattolica vada. La Chiesa è una famiglia ed è una: santa, cattolica ed apostolica. Quest’esperienza la sto vivendo in modo molto forte e sento veramente una gioia profonda. Come diceva un Padre della Chiesa: “Ex Africa semper aliquid novi”, cioè dall’Africa viene sempre qualche novità. So che quest’assemblea ci porterà ad una novità non solo per l’Africa ma per tutta la Chiesa universale.

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L'intervento del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato

La presenza e il contributo dei rappresentanti pontifici


Nella mattina di venerdì 9 ottobre il primo dei ventuno interventi dei padri sinodali è stato pronunciato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato. Eccone il testo. 

La comunione affettiva ed effettiva delle Chiese particolari con la Chiesa universale, che è uno degli obiettivi del Sinodo dei vescovi, trova nell'azione dei nunzi apostolici uno snodo insostituibile e particolarmente importante nella realtà del Continente africano. Negli ultimi cinquant'anni i Sommi Pontefici hanno voluto manifestare il loro amore per l'Africa anche allacciando numerose relazioni diplomatiche con gli Stati che, via via, diventavano indipendenti. Basti pensare che, se all'inizio degli anni Cinquanta solo due Paesi avevano contatti stabili con la Santa Sede (Egitto e Liberia), alla fine degli anni Ottanta essi erano diventati 40. Tale numero è andato ulteriormente crescendo nel tempo successivo e oggi, su 53 Paesi africani, 50 intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Non bisogna poi dimenticare l'attenzione verso gli Organismi Internazionali. Al riguardo, desidero menzionare la Rappresentanza presso l'Unione Africana, con sede ad Addis Abeba, e la Delegazione presso l'Organizzazione degli Stati Arabi, con sede al Cairo.

Questa fitta rete di presenze non è finalizzata soltanto a promuovere e sostenere i rapporti fra la Santa Sede e le Autorità statali, bensì intende soprattutto "rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di comunione fra la Sede Apostolica e le singole Chiese particolari" (Canone 364), attraverso la mutua assistenza e il consiglio che i rappresentanti pontifici prestano e ricevono dai vescovi, nonché attraverso le visite che essi compiono regolarmente nelle diocesi per conoscere le comunità locali, apprezzarne la cultura e le tradizioni, conoscerne le problematiche. Lo ricordava Giovanni Paolo II, parlando ai rappresentanti pontifici in Africa, allorché li esortava a continuare "con ogni impegno a essere testimoni di comunione, favorendo il superamento delle tensioni e delle incomprensioni, la vittoria sulla tentazione del particolarismo, il rafforzamento del senso di appartenenza all'unico ed indiviso Popolo di Dio" (25 settembre 2004). Questa collaborazione vuole costituire un aiuto fraterno e concreto alla missione dei vescovi nelle complesse realtà in cui essi sono chiamati a operare.

In quest'ottica di comunione va pertanto collocata la missione diplomatica della Santa Sede, che, soprattutto nel corso dell'ultimo decennio, ha favorito l'elaborazione di Accordi o altre convenzioni con le Autorità statali. Mi rallegro, pertanto, che l'Instrumentum laboris preparato per questa Seconda Assemblea Speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, al numero 7, menzioni l'Accordo della Santa Sede con il Gabon, firmato nel 1997, cui è seguito nel 2001 un Accordo circa l'insegnamento cattolico nel Paese. Altri Accordi sono poi in preparazione o in via di definizione. Mi piace, inoltre, ricordare che alcune Conferenze episcopali hanno stipulato Convenzioni su materie specifiche, quali l'insegnamento e l'assistenza sanitaria. L'insieme di tali documenti mira non solo a definire il quadro giuridico dell'azione ecclesiale, ma anche a supportare la missione della Chiesa, che è chiamata a essere "il sale della terra" e "la luce del mondo" (Matteo 5, 13.14).

Con questo spirito, i rappresentanti pontifici sono chiamati a dare voce al Santo Padre, innanzitutto nella difesa della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali, come è accaduto in occasione dell'entrata in vigore, il 25 novembre 2005, del "Protocollo alla Carta Africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, relativo alle donne", meglio noto come "Protocollo di Maputo", oppure quando si sono adoperati perché non si banalizzasse surrettiziamente l'aborto (cfr. Discorso al Corpo Diplomatico, 8 gennaio 2007), sulla base della sconcertante tesi, secondo la quale la soppressione della vita sarebbe una questione di salute riproduttiva (cfr. Discorso alle autorità politiche e il Corpo Diplomatico, Luanda, 20 marzo 2009).

Inoltre, per promuovere la dignità umana, i Rappresentanti Pontifici collaborano con gli episcopati in difesa della libertà religiosa e nella promozione di un dialogo autentico, sia con le altre Chiese o comunità ecclesiali, sia con gli appartenenti ad altre religioni, come pure, naturalmente, con la autorità civili.

Speriamo che l'azione congiunta in questa direzione porti frutti non solo all'interno delle comunità ecclesiali, ma anche nei consessi della comunità internazionale, in modo che le opzioni della Chiesa, fondate sul diritto naturale e sulla sua esperienza in umanità, siano pienamente accolte anche a livello politico locale e internazionale.


(©L'Osservatore Romano - 10 ottobre 2009)
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L’altro volto del continente: un contributo al Sinodo per l’Africa

Il Movimento dei Focolari promuove un incontro a Roma il 18 ottobre



ROMA, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

Come avvenuto ad ogni Sinodo dei Vescovi, il Movimento dei Focolari, ha promosso per domenica 18 ottobre un momento di incontro con i padri sinodali, esperti, uditrici ed uditori che desiderano approfondire l’esperienza dei Focolari di fronte alle sfide al centro dei lavori sinodali.

L'incontro si terrà a partire dalle ore 15,30 presso l'Istituto Maria Bambina in via Paolo VI, 21 (accanto al Colonnato di s. Pietro).Aprirà l’incontro mons. Antoine Ntalou, Arcivescovo di Garoua (Camerun) e lo concluderà mons. Boniface Lele, Arcivescovo di Mombasa (Kenya). In apertura anche l’intervento della presidente dei Focolari, Maria Voce, sulla sua visita a Fontem (Camerun) del gennaio scorso sulla continuità del carisma di Chiara Lubich dopo la conclusione del suo viaggio terreno nel marzo dello scorso anno.

Centrali, nel programma, le storie di Vangelo vissuto in Africa. La dott.ssa Mary Ategwa di Fontem, del popolo Bangwa (Camerun), per la maggioranza di religione tradizionale, darà testimonianza della solidarietà e sviluppo suscitati dalla nuova evangelizzazione promossa in prima persona dai leaders tradizionali di questo popolo, insieme ai Focolari.

Verranno poi presentate alcune testimonianze sulle risposte suscitate dallo stile di vita ispirato all’amore scambievole evangelico.Sin dal 1992, nel corso di un viaggio in Kenya, Chiara Lubich ha dato il via ad una scuola di inculturazione per l’incarnazione del Vangelo nelle culture africane, che ha sede nei pressi di Nairobi.

Studiosi africani ed europei hanno condotto insieme ricerche su tematiche come: proprietà e lavoro; la persona; la comunità; l'educazione; la riconciliazione; la sofferenza; la malattia e la morte; il concetto di Dio; e la comunicazione.

Ne parlerà Maria Magnolfi, membro della Commissione centrale per l’inculturazione in Africa, docente di Sacra Scrittura al Seminario maggiore di Pretoria (Sudafrica).

Il dott. Martin Nkafu Nkemkia (Camerun), docente di cultura, religione e pensiero africani e di filosofia e culture presso le Pontificie Università Lateranense e Gregoriana di Roma, parlerà dell'esperienza del Movimento dei Focolari iniziata nei primi anni ‘60 in Camerun e ora diffusa in quasi tutti i Paesi del continente. Quale segno del cammino di comunione tra vari movimenti avviato sin dal ‘98, l’incontro ospiterà anche la testimonianza della Comunità di Sant’Egidio su Pace e giustizia, cui seguirà, per chi lo desidera, la partecipazione alla celebrazione eucaristica “per la pace e la giustizia in Africa”, promossa dalla Comunità di Sant’Egidio a S. Maria in Trastevere, e la festa in piazza con le comunità africane di Roma.

Mons. Martinelli: con i clandestini l'Europa non si comporta in modo cristiano

Il vicario apostolico di Tripoli incontra i giornalisti


di Chiara Santomiero


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
"E' il mio popolo e io ne sono responsabile. Chiedo che le persone abbiano almeno il minimo necessario per vivere". Con passione e fermezza mons. Giovanni Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, ha denunciato la situazione dei tanti disperati che arrivano in Libia fuggendo dalla guerra e dalla miseria di molti Paesi africani e cercano ad ogni costo la possibilità di attraversare il mare per raggiungere l'Europa.

L'occasione, dopo l'intervento in aula dei giorni scorsi, è stata l'incontro di questo venerdì con i giornalisti del gruppo linguistico italiano che stanno seguendo i lavori del Sinodo.

"La mia Chiesa - ha raccontato mons. Martinelli - è composta da stranieri: tanti lavoratori di provenienza asiatica, filippini per la maggior parte. Sono impegnati al servizio di multinazionali. Insieme a loro, africani di altri Stati - soprattutto della fascia sub-sahariana - che cercano in Libia il pane della sopravvivenza".

Nel Paese ci sono da 5.000 a 10.000 eritrei - non è possibile avere stime esatte - che "non possono tornare indietro nei loro villaggi sconvolti dalla guerra e sono determinati a rimanere o ad attraversare il mare, anche a costo di morire nel tentativo", ha ricordato.E se l'immigrazione clandestina "non è un fenomeno positivo", "il modo con cui l'Europa si comporta nei loro confronti non è civile né cristiano: sono nostri fratelli".

Quelli che vengono respinti dalle coste italiane e del Mediterraneo vengono rinchiusi nei centri di raccolta libici oppure in prigione, se hanno commesso dei reati.

La chiesa cattolica libica - che durante i lavori del Sinodo ha ricevuto i complimenti del Cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, per l'impegno profuso nell'accoglienza degli immigrati -, visita costantemente i centri di raccolta e anche le prigioni. Oltre a mons. Martinelli, a Tripoli sono presenti altri sei sacerdoti e trenta suore che operano in centri sociali; un presbitero presta il suo ministero nel Sahara da oltre 20 anni e c'è un altro Vescovo cattolico a Bengasi.

"Le autorità libiche - ha affermato mons. Martinelli - non ci negano i permessi e i responsabili dei centri ci chiamano in aiuto quando hanno bisogno di medicinali. Anche i direttori delle prigioni mostrano una sensibilità umanitaria e non chiudono gli occhi davanti alle situazioni di bisogno". "La Libia - ha aggiunto - fa quello che può nei confronti degli immigrati; almeno assicura loro da mangiare e non impedisce a noi di accedere. Si tratta di un problema che sovrasta le loro forze. Dovrebbe essere l'Italia ad aiutare le autorità libiche a gestirlo: non basta respingere le persone".

Sollecitato dalle domande dei giornalisti, il vicario apostolico di Tripoli ha anche affermato che il problema degli abusi verso gli immigrati denunciati nei centri di raccolta o il traffico di esseri umani "non coinvolgono le autorità del Paese" e sono un'ulteriore conseguenza, nata dall'approfittamento senza scrupoli di alcuni, del fatto che "la Libia venga lasciata sola a gestire una massa di persone che non è in grado di accogliere".

"L'Europa dovrebbe aiutare queste persone nei Paesi d'origine, come la Nigeria o il Congo, facendo attenzione a come vengono dati e distribuiti gli aiuti", ha dichiarato. Nella stessa Libia "potrebbe intervenire per fornire a tanti immigrati, insieme o al posto del Governo libico, dei documenti validi. Molti di essi, infatti, sono lavoratori qualificati che non possono essere impiegati dalle aziende impegnate sul territorio perché non hanno i documenti in regola. Perché tenere la gente ferma nei centri di raccolta e non dare loro la possibilità di lavorare?".

Un aspetto particolarmente tragico dell'immigrazione in Libia è quello relativo alle donne. "Molte di loro, fatte venire nel Paese con la promessa di un lavoro ben retribuito, sono costrette alla prostituzione o alla schiavitù. Altre, soprattutto dell'Eritrea, perduto il marito perché in fuga o in prigione, arrivano incinte o con i figli per mano, decise a trovare una possibilità di vita per loro".

A centinaia si ritrovano nella chiesa di Tripoli il venerdì per ricevere un pacco con un po' di generi alimentari e vestiti per i bambini. Il venerdì è anche il giorno della Messa. "Quando vedo tutta questa gente in chiesa che prega con fervore sento un brivido - ha confidato monsignor Martinelli ai giornalisti -. È impressionante il loro coraggio nell'aggrapparsi alla fede per trovare una speranza".

"Gli europei hanno paura di queste persone disperate, ma si tratta di una paura in larga parte ingiustificata - ha concluso -. Se si guardasse a loro come a dei cristiani, si scoprirebbe con che intensità vivono la loro fede e come siano solo degli esseri umani in cerca di lavoro per sfuggire alla miseria del proprio Paese".

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10/10/2009 06:33

“Tossici rifiuti spirituali” esportati verso l'Africa

Ideologia di genere e relativismo



di Carmen Elena Villa


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

Il continente africano è sempre più vulnerabile ai “tossici rifiuti spirituali”che importa soprattutto dal primo mondo, come ha affermato Papa Benedetto XVI durante l'omelia di inaugurazione del Sinodo per l'Africa domenica scorsa.

Ciò avviene anche se il cattolicesimo è ben rappresentato nei Parlamenti dei Paesi africani (il 22% dei parlamentari è cattolico).Su questi temi sono intervenuti in modo particolare questo giovedì mattina nell'Aula del Sinodo il Cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, e monsignor Philippe Ouédraogo, Arcivescovo di Ouagadougou (Burkina Faso).Il Papa non è stato presente durante la sessione del mattino perché doveva ricevere Mahmoud Abbas, presidente dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dell'Autorità Nazionale Palestinese.

Ideologia di “genere”

Il Cardinale Antonelli ha espresso la sua preoccupazione constatando che in Africa l'“ideologia di genere” inizia a infiltrarsi in modo “molto camuffato” nelle associazioni, “negli ambienti governativi e anche in alcuni ambienti ecclesiali”.

Le differenze tra uomo e donna non corrispondono – affermano i sostenitori dell'ideologia di genere – a una natura “data”, ma sarebbero mere costruzioni culturali in base ai ruoli e agli stereotipi assegnati ai sessi in ogni società.

Il porporato ha spiegato che quanti applicano queste ideologie partono da problemi reali ai quali bisogna rimediare, “come le ingiustizie, le violenze subite dalle donne, la mortalità infantile, la malnutrizione, la fame, i problemi di alloggio e lavoro”.

Le soluzioni che offrono, ha aggiunto, risultano però “ambigue nei loro nuovi significati antropologici”.A tale proposito, ha citato l'esempio del diritto all'uguaglianza tra uomini e donne, che non è sempre visto come la dignità che ha ciascuno di loro, ma come l'irrilevanza che viene attribuita alla differenza tra i due sessi cercando un'uniformità di tutti gli individui “come se fossero sessualmente indifferenziati”, provocando un'“equivalenza di tutti gli orientamenti e i comportamenti sessuali”.

Si tratta di una visione errata della libertà che vuole che “ogni individuo abbia il diritto di compiere liberamente (ed eventualmente di maturare) le proprie scelte secondo i suoi desideri e le sue preferenze”.

La libertà della donna, ha segnalato il Cardinale, non significa solo emancipazione o competenza, rivalità o antagonismo, ma vivere la complementarietà con l'uomo.

Questa ideologia si diffonde in programmi di salute sessuale e riproduttiva che cercano la collaborazione del Governo e delle associazioni locali, anche ecclesiali, “che generalmente non si rendono conto delle loro implicazioni antropologiche, eticamente inaccettabili”.

Il porporato ha concluso il suo intervento esortando “alla vigilanza” le istituzioni che assistono i sacerdoti, i seminaristi, i religiosi, le organizzazioni della Caritas e altri operatori pastorali laici.

Tirannia del relativismo

Monsignor Philippe Ouédraogo, Arcivescovo di Ouagadougou (Burkina Faso), ha affermato che un altro dei “tossici rifiuti” che arrivano in Africa è l'imposizione del “pensiero unico”, retto soltanto dalla legge del libertinaggio e del relativismo morale.“Il rumore mediatico suscitato dai mezzi di comunicazione nel viaggio del Santo Padre in Camerun e Angola a marzo rappresenta un esempio evidente”, ha aggiunto il presule.

“Programmi rivolti a persone di lingua francese, sia europee che africane, fanno credere che le religiose e i religiosi africani, studenti o missionari a Roma o in altri luoghi d'Europa, vivano di mendicità e prostituzione, abbandonati dal Vaticano e dalle congregazioni religiose”.

Il presule ha concluso il suo intervento affermando che “gli africani non possono usare la violenza per combattere l'imperialismo e la tirannia del pensiero unico”.

“Ad ogni modo, chiediamo loro un po' di moderazione e prudenza, di rispetto e tolleranza, e soprattutto di onestà intellettuale dietro l'espressione delle loro idee”, ha chiesto. 
Durante il Sinodo, una religiosa del Ruanda testimonia la riconciliazione

La suora ha perso la sua famiglia nel genocidio ruandese


di Carmen Elena Villa

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La testimonianza di suor Geneviève Uwamariya, della comunità di Santa Maria di Namur in Ruanda, ha fatto rabbrividire questa mattina i presenti nell'Aula del Sinodo.

Suor Geneviève ha perso il padre e vari familiari durante il genocidio avvenuto nel Paese nel 1994, uno degli episodi più sanguinosi del XX secolo, in cui da aprile a luglio è stato massacrato sistematicamente un numero di persone che oscilla tra 800.000 e 1.701.000.

La religiosa ha voluto condividere un'esperienza personale avvenuta tre anni dopo questa tragedia che, secondo lei, ha cambiato la sua vita e mostra come si deve vivere la riconciliazione in un continente ferito da violenza, crude violazioni dei diritti umani e innumerevoli problemi sociali.La suora ha ricordato che il 27 agosto 1997, attraverso un gruppo della Divina Misericordia, ha incontrato a Kybuye, il suo villaggio di origine, un gruppo di prigionieri, vari dei quali autori materiali del genocidio.

L'obiettivo dell'incontro era prepararli al Giubileo del 2000. Durante l'incontro, la suora disse: "Se sei stato vittima offri il perdono e perdona chi ti ha ferito", dicendo che solo così la vittima si sarebbe liberata dal carico di rancore e il criminale dal peso di aver commesso il male."Subito un prigioniero si alzò chiedendo misericordia", ha raccontato la religiosa. "Sono rimasta pietrificata riconoscendo l'amico di famiglia che era cresciuto con noi".

"Mi ha confessato di aver ucciso mio padre. Mi ha descritto i dettagli della morte dei miei cari", ha aggiunto. La suora lo ha abbracciato e gli ha detto: "Sei e continuerai ad essere mio fratello".

Suor Geneviève ha confessato di aver sentito che le era stato "tolto un peso". "Ho ritrovato la pace interiore e ho ringraziato la persona che avevo tra le braccia".

Con sua grande sorpresa, ha sentito quell'uomo gridare: "La giustizia può fare il suo corso e mi potrà condannare a morte, ma ora sono libero!"."Anch'io volevo gridare a chi mi voleva ascoltare; 'Anche tu puoi ritrovare la pace interiore!'", ha rivelato.

Da quel momento, suor Geneviève Uwamariya si incarica di portare la posta dalle carceri per chiedere perdono ai sopravvissuti. In questo modo sono state distribuite 500 lettere, e con alcune risposte che hanno ricevuto molti prigionieri hanno recuperato l'amicizia con le vittime e hanno sperimentato il vero perdono.Ciò ha fatto sì che le vittime si riuniscano. "Sono azioni che sono servite affinché molti vivessero la riconciliazione", ha testimoniato. Suor Geneviève ha affermato che il suo popolo è pieno di vedove e orfani e che dal 1994 è stato ricostruito dai prigionieri. Nelle parrocchie del Ruanda sono nate molte associazioni di ex carcerati e sopravvissuti, e funzionano bene.

"Da questa esperienza deduco che la riconciliazione non è solo voler riunire due persone o gruppi in conflitto", ha spiegato. "Si tratta di 'insediare' in ciascuno l'amore e di lasciare che avvenga la guarigione interiore, che permette la liberazione".

"Per questo - ha concluso - la Chiesa è importante nei nostri Paesi, perché può offrire una parola che cura, libera e riconcilia".


[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]
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Sinodo per l'Africa: chiusa la prima settimana di lavori. Intervista con l'arcivescovo di Addis Abeba

Con la decima Congregazione generale, si è chiusa stamani la prima settimana di lavori del
secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. Oggi pomeriggio, alle 18.00, i Padri Sinodali si sposteranno in Aula Paolo VI per assistere alla Preghiera del Rosario “con l’Africa e per l’Africa”, guidata da Benedetto XVI, insieme agli universitari degli Atenei romani. Collegati via satellite ci saranno anche i giovani studenti di nove Paesi africani: Egitto, Kenya, Sudan, Madagascar, Sud Africa, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico e Burkina Faso. Durante i lavori sinodali di questa mattina, intanto, si è riflettuto sul ruolo primario della famiglia come strumento di pace, sulla difesa delle donne e sulla tutela degli immigrati. La cronaca nel servizio di Isabella Piro:

Se educhiamo un uomo, educhiamo un individuo, ma se educhiamo una donna, educhiamo una famiglia e, attraverso di essa, un’intera nazione. Questa riflessione ha sintetizzato al meglio l’importanza che il Sinodo dei Vescovi ha riservato, durante i lavori odierni, alla difesa della famiglia e delle donne. Perché è da esse che inizia il processo di pace. Nel nucleo familiare, inteso come “Chiesa domestica”, infatti, si nutrono e si condividono i valori spirituali necessari alla riconciliazione. No, quindi, alle violenze sulle donne, no alla poligamia, no alla terribile usanza di sacrificare il figlio primogenito. Sì, invece, ad una maggiore diffusione della “Carta dei diritti della famiglia” perché diventi il cardine dei dibattiti democratici; e sì anche ad una catechesi familiare continua e ad organi diocesani speciali che siano in costante dialogo con le autorità civili, per assicurare che le necessità della famiglia siano rispettate.

L’Aula del Sinodo ha guardato, poi, agli immigrati africani, presenti in molti Paesi dell’Occidente e si è appellata perché non vengano mai negati loro i diritti e l’assistenza, come invece avviene frequentemente. Allo stesso tempo, i Padri Sinodali ribadiscono: non saranno le barriere politiche a fermare le migrazioni clandestine, ma la riduzione effettiva della povertà attraverso lo sviluppo economico e sociale dell’Africa.

Tra gli altri temi salienti, la necessità di una riflessione sui matrimoni misti, l’invito rivolto ai fedeli laici ad essere attivi nella vita politica, senza dimenticare i valori cristiani, e l’appello per l’abolizione della pena di morte in tutta l’Africa.

Poi, alcuni suggerimenti: pensare ad un nuovo rito di esorcismo, basato sul vecchio, per combattere la stregoneria molto diffusa in Africa; puntare al microcredito per aiutare i poveri e proteggere l’ecosistema per conseguire la pace.

Ieri pomeriggio, invece, i Padri Sinodali hanno riflettuto sul ruolo dei rappresentanti pontifici che, si è detto, danno voce al Papa nella difesa della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Centrale anche l’auspicio che si possa cancellare il debito estero dell’Africa e che si giunga alla creazione di un osservatorio permanente per la prevenzione dei conflitti. Particolare, inoltre, il suggerimento di pensare ad una pastorale nomade per tutti gli africani non stanziali.

Ma a dominare il pomeriggio di ieri è stato l’intervento di Rudolf Adada, già capo dell’Unamid, la missione di pace nel Darfur istituita nel 2007 congiuntamente dall’Onu e dall’Unione Africana. In veste di Invitato Speciale al Sinodo e alla presenza del Papa, Adada ha ricordato che con 200mila militari, 6mila poliziotti e altrettanti civili, l’Unamid è la missione di pace più grande del mondo. Ma non basta, perché il conflitto nella regione sudanese occidentale del Darfur, che va avanti da sei anni, non vede all’orizzonte un accordo di pace e questa missione di peacekeeping, in realtà, non ha pace da mantenere:

"Aujourd’hui, en termes purement numériques, nous pouvons dire…"

Certo, ha ribadito Adada, dopo il periodo critico del 2004, oggi si può dire che il conflitto del Darfur è di bassa intensità, ma solo in termini numerici, perché esso non è affatto concluso. Serve un accordo di pace, allora, che sia inclusivo e comprenda tutta la società civile.

"Il n’y a pas de solution militaire au problème du Darfour…"

Non c’è soluzione militare per il Darfur, ha aggiunto Adada, ma occorre un accordo politico. Nel suo intervento, Adada si è soffermato anche sul mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale contro il presidente del Sudan, Omar al-Bashir e, a titolo strettamente personale, ha parlato della creazione di una situazione di stallo: chi vorrebbe negoziare con un presidente che finirà arrestato?

Infine, l’Invitato Speciale al Sinodo ha chiesto un rafforzamento dell’Unamid e ha ribadito:

"L’Église a un rôle majeur à jouer dans un Soudan…"

La Chiesa è una forza di pace ed ha un ruolo preminente da svolgere nel Sudan, Paese cerniera tra due mondi, l’Africa e il mondo arabo.

Dal Sinodo è partita intanto la proposta di nominare un rappresentante permanente della Santa Sede presso l’Unione Africana che partecipi alle riunioni e possa mantenere un contatto personale con i membri di questa istituzione. L’iniziativa è stata presentata dall’arcivescovo di Addis Abeba e presidente della Conferenza episcopale etiopica, mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel. Nel suo intervento il presule ha anche esortato il Sinodo a studiare le cause alla base del traffico di esseri umani e delle migrazioni. “La vita degli africani è sacra e non priva di valore come invece sembra essere vista da molti media”, ha detto mons Souraphiel. Paolo Ondarza lo ha intervistato a partire dalla proposta di un rappresentante della Santa Sede all’Unione Africana:

R. – Questo sarebbe molto importante, perché la Chiesa universale ha una voce forte. Grazie a Dio, la voce del Papa e della Santa Sede ha un valore grande. Così, se la Santa Sede avesse un nunzio all’Unione Africana, la voce della Chiesa africana potrebbe essere sentita meglio.

D. – E questo lei crede sarebbe accolto bene anche da quei Paesi a maggioranza musulmana?

R. – Penso di sì, perché in molti casi i musulmani considerano la posizione cattolica, come per esempio per quanto riguarda il rispetto della vita. Noi educhiamo tanti musulmani, nelle nostre scuole e per questo loro sanno che noi svolgiamo questo lavoro senza forzare i musulmani a diventare cattolici; invece, diciamo loro che devono studiare per diventare voce per il loro popolo. Ma a livello dell’Unione Africana, più della metà dei membri sono cattolici! Ecco perché penso che questo nunzio possa anche aiutarli a prendere posizione secondo gli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa.

D. – Lei ha invitato a studiare le cause che sono alla base del traffico di esseri umani

R. – Io penso che questa situazione sia molto, molto seria per quanto riguarda la tratta delle donne e dei minori. Dal Sinodo deve uscire una forte presa di posizione su questo!

D. – Lei crede che una delle cause della tratta risieda in Africa?

R. – Sì: deve esistere una sorta di “accordo” internazionale, perché le persone non arrivano facilmente in Europa! Ci sono persone che hanno già pronti i visti d’ingresso: chi organizza tutto questo? Dopo gli armamenti e la droga, la tratta degli esseri umani è ora un business internazionale!

D. – Mons. Souraphiel, mi volevo soffermare sulla situazione nel suo Paese, in particolare per quanto riguarda la vita della Chiesa, la condizione dei cristiani

R. – La Chiesa cattolica non è molto diffusa, in Etiopia, conta solo l’un per cento della popolazione. Lei sa che ha parlato, qui, il Patriarca Abuna Paulos della Chiesa ortodossa etiopica: loro rappresentano più del 45% della popolazione, per oltre 40 milioni di cristiani ortodossi in Etiopia. In Etiopia, i cristiani vogliono rimanere nel loro Paese …

D. – Lei ha detto che la povertà è una piaga per l’Etiopia

R. – Devo dire che molte donne emigrano verso il Medio Oriente: perché vanno lì? Perché in Africa non c’è lavoro. Ma per andare lì, prima di tutto devono cambiare il loro nome cristiano in un nome musulmano, devono vestire come i musulmani … Posso dire che per la prima volta, in Etiopia, la povertà sta costringendo le persone a rinnegare la loro eredità cristiana. Quindi, emigrano, non sono pagati molto perché non sono qualificati … Ecco perché dico che ci sono cose che noi africani dobbiamo cambiare. Quando le donne o altre persone emigrano, è meglio preparare bene queste persone, offrire loro una preparazione professionale qualificata in modo che possano guadagnare di più e mandare più denaro alla loro famiglia, nel Paese d’origine.

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Con la decima congregazione generale si è conclusa la prima settimana dei lavori dell'assemblea

Immigrati e diritti delle donne al centro del dibattito sinodale


La dignità degli emigranti e un nuovo appello in difesa della donna africana sono tra i principali argomenti affrontati sabato mattina, 10 ottobre, durante la decima congregazione generale dell'Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi.
La questione migranti è stata sollevata da monsignor Gabriel 'Leke Abegunrin, vescovo di Osogbo, in Nigeria. La voce profetica della Chiesa a favore dei poveri e degli oppressi - ha detto - non deve essere compromessa né sacrificata sull'altare dell'interesse materiale. Per questo deve fare propria la preoccupazione per il destino di moltissimi emigrati africani, presenti in tutti i Paesi dell'occidente. A causa della crisi economica - ha spiegato - molti Paesi occidentali hanno promulgato leggi e creato strutture a salvaguardia delle proprie economie. Purtroppo tra queste leggi alcune rischiano di negare i diritti umani degli immigrati, in particolare di quelli provenienti dall'Africa. La Chiesa - ha concluso - ha il dovere di farsi sentire.
Il cardinale Sarr, arcivescovo di Dakar, ha poi cercato di far capire quali grandi sofferenze siano alla base del fenomeno migratorio clandestino. Innanzitutto, ha detto ribadendo un'altra accusa di monsignor Abegunrin, comportamenti illegali di governanti corrotti da imprenditori e multinazionali estere - una "vera mafia internazionale responsabile dello scandalo ecologico che dilapida le ricchezze dell'Africa" aveva poco prima denunciato monsignor Fridolin Ambongo, della Repubblica Democratica del Congo - che non si preoccupano minimamente dell'estrema povertà in cui versano i loro concittadini. Molti dei quali - ha proseguito - sono costretti a emigrare per non morire di fame o per non subire violenze inaudite, o addirittura per non essere assassinati. Il più delle volte alla base di queste violenze c'è la necessità di liberare terre ricche ma destinate allo sfruttamento delle multinazionali. Da questo Sinodo - ha concluso Sarr - dovrebbero essere pertanto lanciati due appelli:  uno ai governanti africani affinché pensino di più ai loro popoli e non ad arricchirsi; l'altro a tutti i potenti delle nazioni estere, soprattutto a quelli "che hanno influito ed influiscono negativamente sui destini dell'Africa" affinché, riconosciuti "i mali che hanno causato all'Africa", si impegnino per il suo sviluppo e per la giustizia.
Per quanto riguarda la questione della donna africana, numerosi presuli hanno rivendicato il riconoscimento di un ruol0 di primo piano nella società civile e nella stessa comunità ecclesiale.
Anche nella sessione di venerdì pomeriggio 9 ottobre, nona congregazione, si era parlato della gravità della situazione di certe regioni africane. In particolare è stata affrontata la questione del Darfur. Per fare il punto della complessa vicenda il Papa ha invitato Rudolf Adada, già responsabile della missione congiunta di pace dell'Onu e dell'Unione africana in una regione che ha definito "una polveriera" dove "tutti sono contro tutti".
Nella discussione libera seguita alla relazione, Adada, rispondendo alle domande di quattro padri sinodali, ha detto che in Sudan "tutti hanno bisogno della Chiesa cattolica" che è un "punto di riferimento" nelle questioni di pace, giustizia e riconciliazione.
A conclusione dei lavori il cardinale Sarr, presidente di turno, ha riaffermato l'impegno della Chiesa in Darfur, ricordando anche la missione del Secam, mentre l'arcivescovo Eterovic ha invitato a pregare per la diocesi sudanese di Tombura-Yambio dopo che, in mattinata, il vescovo Kussala aveva presentato un quadro estremamente drammatico.



(©L'Osservatore Romano - 11 ottobre 2009)
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Durante la nona congregazione generale

La tragedia del Darfur nella testimonianza dell'invitato speciale Rudolf Adada


Pubblichiamo l'intervento pronunciato dall'invitato speciale Rudolf Adada, già rappresentante speciale della missione congiunta delle Nazioni Unite e dell'Unione africana nel Darfur (Sudan), durante la congregazione di venerdì pomeriggio, 10 ottobre.

È un immenso onore per me potermi rivolgere, in presenza di Sua Santità, a questo areopago di Principi della Chiesa, riuniti in questa aula sacra.
Come sapete, non ho più l'incarico dell'Unamid (African union/United nations hybrid operation in Darfur) e le opinioni che esprimo, adesso, riguardano solo me. Il dibattito sul Darfur è divenuto così polarizzato che è difficile mantenere una posizione obiettiva. Questo è ancora più spiacevole perché solo un approccio neutro può garantire soluzioni durature.
Di fronte a Sua Santità, vorrei offrire una testimonianza il più imparziale possibile. So di poter parlare serenamente, poiché la Chiesa è una forza di pace e la pace esige la verità. 

Africa Alla fine del 2005, il Congo è stato eletto membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il periodo 2006/2007 e nel gennaio del 2006, il Presidente Denis Sassou-Nguesso viene eletto presidente in carica dell'Unione Africana. Queste due decisioni hanno fatto del Ministro degli Esteri del Congo - quale ero all'epoca - un osservatore privilegiato dei grandi problemi che attanagliavano l'Africa, tra i quali, al primo posto, vi era la crisi del Darfur.
Ho così potuto seguire l'evoluzione di tale questione più da vicino. Quando il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e il presidente della Commissione dell'Unione Africana, Alpha Oumar Konaré, hanno scelto la mia persona per dirigere la prima missione congiunta Nazioni Unite/Unione Africana e il presidente Denis Sassou-Nguesso ha dato il suo consenso, mi sono sentito investito di una triplice fiducia. Era mio compito meritarla.


Il conflitto

Tutti sanno che il conflitto del Darfur è esploso nel febbraio del 2003 quando un gruppo ribelle, il Sudan Liberation Army (Sla) - guidato da Abdulwahid Mohammed Al Nur -, ha attaccato Gulu, il capoluogo del Jebel Marra. Successivamente, ad aprile, questo gruppo attaccò l'aeroporto di El Fasher, capitale del Darfur. Venne poi formato un secondo gruppo, conosciuto come Justice and Equality Movement (Jem) guidato da Khalillbrahim.
La risposta del governo sudanese si manifestò con quella che alcuni hanno definito "contro-insurrezione al ribasso", estremamente violenta e basata sullo sfruttamento delle rivalità etnico sociologiche tramite l'uso dei "Janjaweeds" dalla pessima reputazione.
Le conseguenze furono spaventose:  centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati (Idp e rifugiati), incalcolabili violazioni dei diritti umani. Una crisi umanitaria senza precedenti.
A meno di dieci anni dal genocidio del Rwanda, la crisi del Darfur ha subito sollevato la questione del genocidio. Conoscete la controversia su questo punto delicato.
Tuttavia, un'analisi più profonda dimostrerebbe che il conflitto del Darfur affonda le sue radici nella storia del Sudan. La storia, l'emarginazione delle regioni periferiche e il loro sottosviluppo, il degrado dell'ecosistema sono fattori da non trascurare. È una "crisi del Sudan in Darfur". Questa crisi è legata anche alla storia del vicino Ciad. Per esempio, il Frolinat creato negli anni Sessanta per lottare contro il presidente del Ciad, François Tombalbaye, è stato fondato a Nyala, nel Darfur, e non è un caso che il primo mediatore nel conflitto sia stato il presidente del Ciad, Idriss Deby. Il lungo conflitto del Tehad ha contribuito anche a far affluire armi leggere in Darfur.
Si diceva che "il Darfur degli anni Novanta era carente d'acqua, ma che invece era inondato di fucili".

Già prima del 2003, la crisi attuale comincia in realtà con una guerra civile tra i Fur e gli arabi, durante la quale ogni parte accusava l'altra di tentato genocidio.
Ecco due citazioni:  "La sporca guerra che ci è stata imposta è iniziata come una guerra economica ma ha ben presto assunto il carattere di genocidio e aveva lo scopo di cacciarci dalla nostra terra ancestrale. Lo scopo è un olocausto totale e l'annichilimento completo del popolo Fur e di tutto ciò che è Fur".
"La nostra tribù araba e i Fur hanno convissuto pacificamente nel corso di tutta la storia del Darfur. Ma la situazione ha conosciuto una destabilizzazione verso la fine degli anni '70 quando i Fur hanno lanciato il motto "il Darfur ai Fur". Gli arabi sono stati dipinti come gli stranieri che dovevano essere espulsi dal Darfur. Sono i Fur che, nella loro ricerca di espansione della cosiddetta "cintura africana", vogliono espellere tutti gli arabi da questa terra".

Queste parole piene d'odio sono state pronunciate durante la conferenza di riconciliazione svoltasi a El Fasher, dal 29 maggio all'8 luglio 1989.
Eppure, questa dimensione etnica è solo la punta dell'iceberg. Questo conflitto è assai più complesso della descrizione manichea comunemente diffusa.


La risposta della Comunità internazionale

Oltre alle organizzazioni umanitarie che continuano a fare un lavoro ammirevole a servizio del popolo sudanese del Darfur, l'Unione Africana è stata la prima a reagire. Nell'aprile del 2004, essa ha organizzato delle trattative per giungere alla firma del cessate il fuoco umanitario di N'Djamena tra il governo del Sudan e i due movimenti ribelli, cioè lo Sla di Abdulwahid El Nur e il Jem di Khalillbrahim. È questo accordo che permetterà di avviare la Muas (Missione dell'Unione Africana in Sudan), con il sostegno di numerosi donatori tra i quali è giusto citare almeno l'Unione Europea, gli Stati Uniti d'America e il Canada.
La Muas ha cominciato con 60 osservatori e una forza di protezione di 300 soldati ma successivamente è passata a settemila uomini. Era la prima missione di peace keeping organizzata dall'Unione Africana e non è stata la più facile.
La Muas è stata oggetto di molte critiche da parte dei media occidentali. Queste critiche sono ingiustificate e ingiuste.
Il lavoro svolto da questa missione è stato enorme e merita di essere elogiato. In condizioni in cui nessuno voleva intervenire, questi africani hanno assicurato con sacrificio e dedizione la presenza della comunità internazionale in Darfur.
Hanno dato testimonianza della compassione umana. Hanno gettato le basi di ciò che oggi è l'Unamid. Sessantuno di loro hanno fatto il supremo sacrificio.
Dalla fine del 2005, di fronte alla complessità dei problemi di ogni genere posti dalla gestione della Muas, è apparso difficile per l'Unione Africana continuare ad assumersi questa responsabilità. L'Unione Africana ha preso allora la decisione di passare il testimone all'Onu cui spettava la missione. Il governo del Sudan si oppose con forza a questa decisione. Tutto il 2006 è trascorso nel tentativo di convincere il governo sudanese della necessità di questo passaggio di responsabilità.
Soltanto il 16 novembre del 2006 il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, in procinto di andarsene, fece la proposta di una missione ibrida. Il governo sudanese accettò e nacque così l'Unamid, la Missione delle Nazioni Unite e dell'Unione Africana in Darfur.
L'Unamid è stata formalmente creata con la risoluzione 1769 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, attraverso il rapporto congiunto del segretario generale delle Nazioni Unite e del presidente della Commissione dell'Unione Africana. Essa prevede ventimila militari, 6.000 poliziotti e altrettanti civili, diventando così la più grande forza di peace keeping del mondo. Doveva essere dotata di tutti gli strumenti necessari allo svolgimento del suo mandato secondo il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite e doveva essere preceduta da due "moduli di sostegno" (light support package e heavy support package) alla Muas per rafforzarla prima del passaggio di potere.
L'Unamid ha come mandato:  contribuire a ristabilire le condizioni di sicurezza necessarie alla distribuzione degli aiuti umanitari; garantire la protezione della popolazione civile; seguire e verificare l'applicazione dei diversi accordi del cessate il fuoco; contribuire all'applicazione dell'accordo di pace di Abuja e di ogni altro accordo.
Lo spiegamento dell'Unamid ha costituito una grande sfida. Si tratta della più grande missione al mondo nella regione più interna del più grande paese africano. In Africa, il punto più lontano dal mare è in Darfur. Le infrastrutture per i trasporti sono inesistenti. L'Unamid succede alla Muas che non ha potuto usufruire dei "moduli di sostegno" promessi. Tutto ciò ha costituito un insieme di ostacoli che abbiamo dovuto superare.
La reticenza, se non la resistenza, del governo sudanese nei confronti della presenza di una missione delle Nazioni Unite in Darfur ha rappresentato un ulteriore problema da gestire.

Le condizioni del dibattito internazionale sul Darfur avevano stigmatizzato il governo del Sudan che, da parte sua, vedeva nella "comunità internazionale" semplicemente una forza il cui scopo era il rovesciamento del regime. Ma, con l'aiuto dell'Unione Africana, è stato possibile diminuire il sospetto nei confronti dell'Unamid. A questo scopo, è stato necessario lavorare a stretto contatto con il governo. Credo che oggi il governo sudanese sia convinto che l'Unamid è una forza di pace e non l'avanguardia di una forza di invasione. È stata creata una Commissione tripartita (Onu-Ua e governo del Sudan) per risolvere ogni problema riguardante lo svolgimento dell'Unamid.
Questo mio impegno presso il governo sudanese non è mai stato ben visto né tanto meno capito.
La maggior parte delle missioni di peace keeping si svolgono negli "stati in fallimento", in cui il governo è o inesistente o impotente (Bosnia, Kosovo, Timor...). In questi casi, la missione dell'Onu diventa un vero governo e il rappresentante speciale quasi il capo di governo. In Sudan non è così. Le Nazioni unite devono su questo punto effettuare una vera "rivoluzione culturale".
Oggi possiamo considerare che il grosso delle truppe sarà sul campo verso la fine dell'anno. Occorre tuttavia sottolineare che alcuni mezzi tecnici promessi dai "moduli di sostegno" non sono ancora stati forniti e in particolare gli elicotteri militari che permetterebbero una maggiore mobilità in un territorio grande come la Francia. È una delle incongruenze delle decisioni della "comunità internazionale".
L'Unamid ha dovuto anche far fronte alla diffidenza e persino all'ostilità degli sfollati. Far accettare l'Unamid agli sfollati e ai movimenti armati è stato più difficile. Molti di loro rifiutavano il suo "carattere africano".

D'altra parte, la loro ostilità all'accordo di Abuja di cui l'Unamid doveva assicurare l'attuazione complicava ancor più la situazione. Ma la nostra azione sul campo - soprattutto al tempo della crisi del campo di Kalma dove un'"operazione di polizia" ha portato alla morte di 38 sfollati, all'espulsione di tredici Ong internazionali e ai combattimenti di Muhajeriya e Umm Baru fra il Jem e le forze governative, l'Unamid ha dato assistenza ai feriti dei due campi, pur proteggendo le migliaia di civili che avevano trovato rifugio presso di essa - la nostra azione sul campo, come dicevo, è riuscita a convincere gli sfollati dell'imparzialità dell'Unamid nell'attuazione del suo mandato. Lo hanno dichiarato in una lettera commovente che abbiamo considerato come una vera e propria onorificenza.
Oggi l'Unamid è presente ovunque in Darfur. Tutte le componenti della missione, i militari, la polizia, i civili (affari politici, affari civili, diritti umani e del Dddc - Darfur-Darfur dialogue and consultations) mantengono rapporti regolari con tutte le parti, con la società civile e con la popolazione in generale. Essi osservano la situazione giorno per giorno e possono fedelmente darne conto. Partecipano anche con successo alla risoluzione delle dispute locali.


La situazione attuale in Darfur

Durante i 26 mesi che ho appena trascorso in Darfur come responsabile dell'Unamid, ho potuto osservare un miglioramento progressivo della situazione della sicurezza in Darfur e ciò malgrado il persistere di due gravi rischi:  il proseguimento delle operazioni militari fra il Jem e le forze governative da una parte e il deterioramento delle relazioni fra il Ciad e il Sudan dall'altra. A questo è opportuno aggiungere le lotte inter-tribali e l'aumento del banditismo, dovuti in gran parte al crollo della legge e dell'ordine.
La criminalità e il banditismo sono oggi la preoccupazione principale in materia di sicurezza. Osserviamo inoltre una nuova tendenza al rapimento di persone a scopo di riscatto. La strategia dell'Unamid per la protezione dei civili mira a controllare tutte queste cause di pericolo per i civili innocenti. Si tratta per l'Unamid di rafforzare la sua presenza nei campi profughi - ormai è presente 24 ore su 24 in 15 campi - e di moltiplicare il numero di pattuglie di polizia e dei militari nelle città e nei villaggi.
Ma, detto questo, la situazione è cambiata radicalmente dopo l'intenso periodo 2003-2004 quando venivano uccise decine di migliaia di persone. Oggi, in termini puramente numerici, possiamo dire che il conflitto del Darfur è un conflitto di bassa intensità. Non vorrei insistere su questa macabra contabilità che appassiona i media:  un morto è un morto di troppo e i numeri che avevo citato al Consiglio di Sicurezza erano lì solo per sostenere l'analisi.

Questo non significa assolutamente che il conflitto in Darfur sia concluso! Infatti, il conflitto in Darfur continua. I civili continuano a correre rischi inaccettabili. Milioni di persone si trovano ancora nei campi profughi o sono rifugiati. A causa dell'insicurezza, non possono tornare a casa e riprendere una vita normale. Non è stata ancora trovata alcuna soluzione alle gravi ingiustizie e ai crimini commessi, in particolare durante il picco delle ostilità, nel 2003-2004.
I progressi che osserviamo sul campo devono essere consolidati con un accordo di pace che deve essere inclusivo. Esso dovrebbe comprendere non solo i movimenti armati ma anche l'insieme delle componenti della società del Darfur, inclusa la società civile, gli sfollati, i rifugiati, senza dimenticare gli arabi che vengono troppo spesso assimilati ai Janjaweeds. Infatti, solo un accordo politico accettato e condiviso da tutti è in grado di riportare una pace duratura in Darfur.

In realtà, è proprio ciò che manca di più, oggi, all'Unamid:  un accordo di pace. Infatti, questa missione di peace keeping non ha pace da mantenere.
Non c'è soluzione militare al problema del Darfur, non può esserci. Nessuno ha i mezzi per vincere militarmente. L'unica opzione è quindi un accordo politico e questo accordo deve tener conto di tutti gli aspetti del problema, locali, regionali, politici, socio-economici, senza dimenticare la grave questione umanitaria.
I vari tentativi di negoziazione dal 2003 non hanno portato a una soluzione. L'accordo di Abuja, firmato il 5 maggio 2006, non è stato inclusivo ed è stato rifiutato da gran parte della popolazione del Darfur. L'attuale mediazione Ua-Un deve tenerne conto e puntare alla partecipazione di tutti.

I prossimi due anni saranno cruciali per il Sudan.

Sono previste elezioni generali nell'aprile del 2010 e, nel 2011, ci sarà il referendum per l'autodeterminazione del Sudan meridionale. È necessario che il Darfur partecipi a elezioni giuste e trasparenti e, perché l'esercizio di autodeterminazione del Sud si svolga in condizioni ottimali, il problema del Darfur dovrebbe essere già risolto. A dir poco, il tempo stringe.


Pace, giustizia e riconciliazione

In Darfur sono state commesse terribili violazioni dei diritti umani, in particolare nel 2003-2004. Questi problemi non sono stati trattati. La pace e la giustizia sono due facce della stessa medaglia. La questione non è sapere se la giustizia deve essere promossa, ma piuttosto il come farlo.
Il procuratore della corte penale internazionale (Cpi) ha chiesto e ottenuto l'emissione di un mandato d'arresto contro il presidente del Sudan.
L'Unamid ha sempre insistito sul fatto che questa questione esulava dal suo mandato e non ha mai commentato questa decisione della giustizia. Ma è una questione che domina il dibattito e tutto il processo di trattamento del problema del Darfur. L'Unione africana, pur precisando di non tollerare in alcun caso l'impunità, ha chiesto che questo mandato d'arresto venga differito per rendere la pace possibile, ma il Consiglio di sicurezza della Nazioni unite non è giunto a un accordo sull'applicazione dell'articolo 16 dello Statuto di Roma. Questo ha spinto l'Unione africana a chiedere ai suoi membri di non eseguire il mandato d'arresto. Parlando a titolo strettamente personale, ritengo che ci troviamo oggi in una situazione di stallo. L'esecuzione di un mandato d'arresto contro un capo di Stato in carica non è una cosa facile e si può comprendere la reticenza a negoziare, espressa da alcuni movimenti armati. "Perché negoziare con un criminale in procinto di essere arrestato?".

L'Unione africana ha creato una Commissione ad alto livello (Au high-level panel on Darfur), presieduta dal presidente Thabo Mbeki (ex presidente del Sud Africa) che comprende, fra gli altri, il presidente Abdusalami Aboubakar (ex presidente della Nigeria) e Pierre Buyoya (ex presidente del Burundi), per studiare questa questione della pace, della giustizia e della riconciliazione e avanzare delle proposte. La Commissione è composta da eminenti esperti e conoscitori dei problemi del Darfur, del Sudan e della giustizia. Sono stato ascoltato da questa Commissione come altre tremila e più persone. L'Unamid e, più precisamente, la sua componente Dddc (Darfur-Darfur-dialogue and consultations), ha offerto tutto il suo sostegno alla Commissione.
La Commissione ha dovuto presentare il suo rapporto ieri, 8 ottobre. Questo rapporto dovrebbe contenere le linee programmatiche per uscire dall'impasse. La comunità internazionale dovrebbe esaminare questo rapporto con obiettività e spirito costruttivo. La Chiesa, forza di pace, elevata autorità morale, potrebbe interessarsi al lavoro di questa Commissione. Forse potremmo trovarvi una via d'uscita alla situazione di stallo.
L'Unamid è uno strumento straordinario di pace, unico nel suo genere, essendo nato dalla volontà di due organizzazioni, l'Unione africana e le Nazioni unite. Spetta alla "comunità internazionale" farne buon uso. C'è stato un tempo in cui l'ibridismo era sinonimo di bastardaggine e di tara ma oggi, quando si parla di automobile ibrida, siamo al culmine del progresso.

L'Unamid rappresenta la comunità internazionale nel suo insieme e non questo o quel paese membro.

Bisogna dunque rafforzare l'Unamid, darle tutti i mezzi di cui ha bisogno e soprattutto questo accordo di pace. Gli uomini e le donne che servono la comunità internazionale su questo fronte non cessano di dimostrare la loro dedizione e abnegazione.
La cosa più importante è che la cooperazione fra i promotori dell'Unamid, l'Unione africana, e le Nazioni unite, rimanga sincera. Il carattere ibrido dell'Unamid, che è stato il vero visto d'ingresso delle Nazioni unite in Darfur, non deve sembrare una semplice astuzia, un "cavallo di Troia". L'Unione africana non deve essere solo uno "sleeping partner" ma deve svolgere pienamente il suo ruolo. Altrimenti la sconfitta è assicurata.

Il Sudan è il più grande paese dell'Africa. È alla cerniera di due mondi, l'Africa e il mondo arabo; confina con nove (9) Paesi africani. Dall'indipendenza (1 gennaio 1956) si può dire che ha conosciuto la pace solo sporadicamente.
L'accordo globale di pace (Cpa) che ha messo fine a oltre 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud, ha suscitato tante speranze. Per la prima volta si intravvedeva un Sudan democratico.
Nel momento in cui la violenza sembra diminuire in Darfur, è preoccupante vedere che proprio ora nel Sud riprendono i massacri; la pace sarà forse il "masso di Sisifo" che, per la massima sfortuna dei sudanesi, ricade giù non appena si crede di aver raggiunto la vetta della montagna?

Il Sudan è uno. Bisogna che la comunità internazionale pensi "Sudan" e non più "Darfur e Sud". In questa visione olistica, la Chiesa ha un ruolo preminente da svolgere in un Sudan pluralista, fra il Sud cristiano e animista e il Nord musulmano, dove c'è il Darfur.
Era il sogno di un grande sudanese, John Garang, il sogno di un nuovo Sudan in pace, in un'Africa in pace.

(©L'Osservatore Romano - 11 ottobre 2009)

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