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Sinodo per l'Africa (4-25 Ottobre 2009)

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2009 10:25
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Suor Elisa Kidanè, Consigliera generale delle missionarie comboniane

«E noi religiose diciamo: dateci spazio»


Gian Guido Vecchi

CITTA’ DEL VATICANO

«Sa cosa vorrei? Che il documento finale del
sinodo avesse un capitolo intero dedicato alla condizione femminile. Anzi, che iniziasse proprio così: amatissime donne e figlie d’Africa!».

Suor Elisa Kidanè, nata in Eritrea, poetessa e giornalista, nel 1980 entrò nelle missionarie comboniane e oggi ne è Consigliera generale: una delle 10 donne (su 29) che parteciperà all’assemblea generale tra gli adiutores , gli esperti chiamati a collaborare.

Sorride: «Sì, ‘amatissime’: non per dirci che cosa dobbiamo fare — quello già lo sappiamo, l’abbiamo fatto ieri e continuiamo oggi — ma per confermarci nel nostro ruolo: il compito di chi ha in mano i destini dell’Africa e dell’umanità, anche se non l’hanno capito».

Perché i destini dell’Africa, in particolare?

«Se dopo tante guerre, epidemie, infermità e morti non abbiamo ancora visto passare il cadavere dell’Africa, è perché le donne resistono. La vita quotidiana passa attraverso le loro mani, in qualsiasi cultura africana. Vede, in molti villaggi l’uomo è assente: non per cattiva volontà, ci sono uomini stupendi, ma perché è in fuga, in guerra, in miniera… La donna c’è sempre. Per questo l’Africa non può fare a meno di quella presenza che ogni giorno, prima che spunti il sole, s’incammina a inventare il presente».

Anche i numeri della Chiesa africana colpiscono: quasi trentacinquemila sacerdoti, tremilacinquecento missionari; mentre le religiose, da sole, sono più di sessantamila…

«Il problema è quello: pur essendo la maggioranza, non siamo presenti. Noi vorremmo esserci, nei vari consigli pastorali. Perché i nostri vescovi non attingono anche alla saggezza delle donne, come del resto facevano i Padri della Chiesa? Perché non ci danno spazio concretamente? Non è una rivendicazione ‘contro’ gli uomini, ma in favore della Chiesa. I Padri ne hanno beneficiato, è una ricchezza che si perde».

E che si potrebbe fare?

«Dateci la possibilità di gestire delle parrocchie a pieno titolo, per dire. Ma no, c’è una difficoltà a mettere una donna, religiosa o laica, a capo di qualsiasi organismo diocesano, e non solo in Africa! A capo è l’uomo, a fare i lavori sempre la donna. Ciò che occorre è un cambio di mentalità, nella Chiesa e anche fra le suore, fra noi donne, noi che educhiamo i nostri ragazzi e figli: il cambio deve partire anzitutto da noi».

E come?

«Dal momento che soprattutto in Africa è la donna che resiste perché esista il continente, esigiamo che ci sia restituito lo spazio e dati gli strumenti per operare. Quando è ora di decidere, di programmare, non veniamo prese in considerazione, o solo in minima parte. Se ne sta prendendo coscienza, se non nella parte maschile almeno fra le donne: esistono doveri, ma anche diritti. Tutti, comunque, a parole si dicono d’accordo. Così non pretendiamo di diventare chissà cosa né di andare contro nessuno: vogliamo poter fare la nostra parte. Del resto non è un problema delle sole donne africane o della Chiesa: esiste la misoginia, lo diciamo tranquillamente. E in fondo anche gli uomini di Chiesa sono figli della società».

Il documento base del sinodo denuncia varie forme di «assoggettamento » delle donne…

«Certo, c’è pure una condizione femminile tragica, anche per questo chiediamo più strumenti. La stessa Chiesa, lungi dall’avallare la situazione, deve promuovere certi cambiamenti: l’accesso delle donne all’istruzione, per dire, è negato in molte parti del continente. In alcune zone missionari e missionarie devono pagare i genitori per mandare a scuola le figlie! E poi, perché non creare circoli di teologhe? Bisogna anche lavorare per rendere protagoniste le donne nella scena pubblica: io aprirei scuole femminili di formazione politica, gli uomini ci vanno già…».

Il sinodo riunisce i vescovi e quindi è inevitabilmente maschile. La presenza di donne tra esperti e uditori le pare sufficiente?

«Potevano essere di più, ad esempio i Superiori generali degli istituti missionari sono molto più numerosi delle Superiore missionarie. Ma bisogna essere ottimisti: è già stato fatto un passo avanti, ci accontentiamo. Non per questo, però, smetteremo di chiedere qualcosa di meglio».

© Copyright Corriere della sera, 4 ottobre 2009 consultabile online anche
qui.
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