Sinodo per l'Africa (4-25 Ottobre 2009)

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S_Daniele
00venerdì 16 ottobre 2009 18:30
Un miliardo di affamati

La fame e la politica


di Pierluigi Natalia

"Una visione di un mondo libero dalla fame è possibile solo se esiste una volontà politica ai livelli più alti". L'affermazione del direttore generale della Fao, Jacques Diouf, nel suo intervento di questa settimana al Sinodo sull'Africa, denuncia che un mondo con oltre un miliardo di affamati non è conseguenza di fenomeni ingovernabili, ma di mancanza di volontà politica, di scelte internazionali che non hanno nella lotta alla miseria e al sottosviluppo la loro priorità assoluta. Tale affermazione trova conferme nel Sofi 2009, il rapporto annuale sullo stato dell'alimentazione nel mondo, pubblicato dalla Fao e dal Programma alimentare mondiale (Pam) dell'Onu, in concomitanza con la Giornata mondiale dell'alimentazione che si celebra oggi, venerdì 16 ottobre.

Nel 2009, per la prima volta il numero degli affamati ha superato il miliardo - il Sofi stima una cifra di un miliardo e venti milioni - con un aumento del 9 per cento nell'ultimo anno. La quasi totalità degli affamati vivono nei Paesi in via di sviluppo:  in Asia e nel Pacifico si stima che siano 642 milioni; nell'Africa subsahariana 265 milioni; in America Latina e Caraibi 53 milioni; nel Vicino Oriente e in nord Africa 42 milioni. Ma il numero degli affamati è aumentato anche nei Paesi ricchi del nord del mondo, dove ha raggiunto i 15 milioni.

I dati del Sofi 2009 si prestano a una duplice lettura:  da un lato confermano che il prezzo maggiore della crisi finanziaria in atto ricade sulle fasce più povere della popolazione mondiale. Dall'altro, però, sottolineano che l'aumento degli affamati non è riconducibile a tale crisi, se non nella sua accelerazione. Il numero delle persone sottonutrite è infatti aumentato in modo lento, ma costante, in tutto l'ultimo decennio.
Questo aumento, sia nei periodi di prosperità economica sia in quelli di recessione, mostra l'estrema debolezza del sistema mondiale di governance della sicurezza alimentare. Come ha sottolineato Josette Sheeran, direttore esecutivo del Pam, proprio nel momento in cui il numero delle persone che soffrono la fame ha raggiunto un picco storico, vi è il più basso livello di aiuti alimentari mai registrato. Né ciò può essere attribuito a mancanza di risorse. Proprio Diouf ha ricordato che la comunità internazionale ha i mezzi economici e tecnici per far sì che questa piaga sia eliminata. Di conseguenza, quello che manca è la volontà politica di sradicare la fame.

Tuttavia, una volontà politica, tanto più a livello internazionale, si definisce intorno a progetti. Questi non possono limitarsi al settore degli aiuti, peraltro indispensabili. Non si tratta solo di fronteggiare volta per volta le emergenze, ma di definire politiche che impediscano la cronicizzazione della fame e progressivamente restringano la forbice tra società dello spreco e società del bisogno. Tredici anni fa, il primo vertice mondiale sull'alimentazione s'impegnò ad almeno dimezzare il numero degli affamati entro il 2015, definendo il primo e il principale di quegli obiettivi di sviluppo del millennio che l'Onu avrebbe poi proclamato nel 2000. Tutti i parametri dimostrano che tale obiettivo non sarà raggiunto, almeno per la data prevista. L'analisi dei dati, cioè, mostra che i modelli di sviluppo finora perseguiti sono fallimentari. Né a questo sono estranee le stesse organizzazioni sovranazionali, se non altro per l'impressione che spesso offrono di essere autoreferenziali.

Il summit mondiale sulla sicurezza alimentare convocato a Roma il mese prossimo e al quale interverrà Benedetto XVI deve dunque individuare nuove strategie. La governance della sicurezza alimentare è parte di quella più generale della convivenza mondiale, di una globalizzazione che finora è stata affidata solo alla finanza e al potere mercantile. Da più parti, accanto a politiche di sostegno all'agricoltura, soprattutto nei Paesi più poveri, si sollecita una revisione dei modelli di sviluppo e delle regole del commercio internazionale, nella direzione di un'economia sociale compatibile con la tutela ambientale.


(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2009)
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 06:56
I problemi dell’Africa sono quelli di tutti gli uomini

L’arcivescovo di Antananarivo, mons. Razanakolona, incontra i giornalisti


di Chiara Santomiero

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 16 ottobre 2009 (ZENIT.org).

“Affrontando i problemi dell’Africa durante questo
Sinodo, ci siamo accorti che sono problemi dell’uomo, di tutti i paesi”: lo ha affermato mons. Odon Marie Arséne Razanakolona, arcivescovo di Antananarivo in Madagascar, incontrando questo venerdì i giornalisti che stanno seguendo i lavori della II Assemblea speciale per l’Africa.
“La necessità della riconciliazione e della pace riguarda tutti gli uomini – ha proseguito Razanakolona – ma oltre il livello umano, un credente è sollecitato dal suo rapporto con Dio a lasciarsi riconciliare da Lui e con i fratelli”.
L’arcivescovo di Antananarivo ha esperienza di conflitti e mediazioni; in qualità di presidente del Consiglio delle Chiese cristiane (Ffkm) del suo Paese - che riunisce cattolici, luterani, riformati ed anglicani -, ha partecipato alla mediazione, nello scorso febbraio, tra il presidente del Madagascar, Marc Ravolamanana e il sindaco di Antananarivo, Andry Rajoelina, protagonisti di una crisi politica che per mesi aveva dato vita nella capitale a proteste, manifestazioni e incidenti tra sostenitori delle parti opposte. La mediazione si è conclusa con la firma di un accordo tra le parti.
Lo stesso Razanakolona aveva spiegato nel suo intervento al Sinodo le ragioni per le quali il Ffkm era stato scelto per mediare: “insieme, i capi religiosi hanno lanciato appelli alla calma”. La conferenza dei vescovi del Madagascar, inoltre “non ha mai cessato di dare l’allarme per attirare l’attenzione del potere in carica sul fatto che la maggioranza delle persone diventa sempre più povera mentre una minoranza si arricchisce; che era in atto una deriva dittatoriale dopo l’adozione di una Costituzione a misura di presidente, che si moltiplicava la vendita di terreni a compagnie straniere, per non parlare dei brogli elettorali”.
“Ognuno – ha detto Razanakolona – vive la propria fede ponendo attenzione alla realtà del posto in cui si trova: questo significa mettere insieme fede e vita”. In Madagascar “l’esperienza ecumenica è molto importante perchè gli appartenenti alle chiese cristiane sono in numero equivalente, ci sono molti matrimoni misti e i rapporti tra di noi hanno un impatto sulla vita sociale. Questo lavorare insieme è uno dei contributi che la Chiesa africana può offrire a tutta la Chiesa”.
Un altro contributo della Chiesa riguarda la mediazione culturale in una società in cui le divisioni etniche hanno un peso rilevante: “Io vengo dal sud – ha raccontato l’arcivescovo di Antananarivo – e sono stato mandato, nella prima destinazione, al nord, a 1400 chilometri dalla mia terra. Dopo sette anni sono stato spostato nella capitale, dove non c’è nessuna delle mie tribù. Ho dovuto imparare molto sulle altre culture ed è quanto la Chiesa cerca di fare a vari i livelli: è la persona che fa l’unità facendo sintesi delle varie culture della realtà malgascia”.
La Chiesa è quindi impegnata in uno sforzo di formazione e di diffusione della conoscenza reciproca, ma non va dimenticato, ha sottolineato Razanakolona che “spesso alla radice dei conflitti etnici ci sono i gruppi e le persone che vogliono dividere la società per potersi meglio impadronire delle risorse e del potere”.
L’arcivescovo di Antananarivo non si è sottratto alle sollecitazioni dei giornalisti su celibato dei preti, valorizzazione del ruolo delle donne e importanza dei media nella Chiesa.
Riguardo ai problemi segnalati nella sua chiesa in merito al celibato sacerdotale, “ se si è scelta una via – ha affermato Razanakolona – occorre rimanervi fedeli, guardando a Cristo come al nostro modello”. Bisogna tener conto anche delle difficoltà di contesto: “è difficile – ha aggiunto Razanakolona – essere sacerdoti così come vivere la coppia e la famiglia in una società che ha altri orientamenti. Lo stesso avviene in Europa. Tutto ciò, insieme alla scarsità di vocazioni, non può non sollevare delle domande e necessita di approfondimenti”.
Per quanto riguarda le donne, “esse in Madagascar rivestono ruoli rilevanti a abbiamo avuto ministre della giustizia e del turismo”. Tuttavia “è molto importante lottare contro la povertà perché questo permetterà alle donne di andare a scuola e di formarsi adeguatamente”.
Infine il ruolo dei media. “Nella mia prima diocesi – ha raccontato Razanakolona – non avevo neanche il telefono. Non si può comunicare se non si hanno i mezzi ed è difficile coprire i vasti territori delle nostre diocesi senza i media. Per questo abbiamo chiesto alla Chiesa universale di metterci a disposizione dei mezzi di comunicazione”.
“La necessità dei media per contribuire all’evangelizzazione – ha confermato don Giorgio Costantino, portavoce del Sinodo per i giornalisti di lingua italiana – è una preoccupazione molto avvertita da tutti i padri sinodali e si è chiesto da più parti che una raccomandazione in tal senso entri in maniera preponderante nel messaggio finale”.

© Copyright Zenit
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 07:00
Vescovo sudanese denuncia terribili massacri di cristiani

La violenza nel Sud del Sudan vuole ostacolare il referendum, afferma



ROMA, venerdì, 16 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

Il Sinodo per l'Africa ha dedicato particolare attenzione al Sudan, Paese diviso tra il Nord principalmente arabo che ha imposto la legge coranica e il Sud cristiano e animista. Monsignor Hiiboro Kussala, Vescovo della Diocesi meridionale di Tombura Yambio, afferma che c'è interesse a ostacolare il cammino verso l'autodeterminazione del Sud, provocando la violenza.

Le elezioni politiche previste dagli accordi di pace del 2005 dovrebbero svolgersi nel 2010, mentre è fissato per il 2011 il referendum per l'autodeterminazione del Sud.

L'appuntamento con le urne è a rischio per le continue violenze perpetrate da gruppi ribelli legati al Governo di Khartoum, come ha confermato monsignor Kussala in alcune dichiarazioni alla “Radio Vaticana”.

“Questi ribelli, a nostro modo di vedere, stanno ricevendo aiuti da parte del governo del Nord. Tutti hanno fucili, armi… Credo ci sia la volontà di lasciare il Sud Sudan in difficoltà perché non abbia quella pace necessaria per preparare il referendum che è previsto per l’anno prossimo”, ha dichiarato.Il presule ha anche informato sugli attacchi ai cristiani: “Il 13 agosto scorso, i ribelli sono entrati nella chiesa della mia parrocchia ed hanno preso tante persone in ostaggio. Mentre fuggivano nella foresta, ne hanno uccise sette: li hanno crocifissi agli alberi. Si verificano tanti drammi come questo. Alcuni di loro sono stati istruiti da al Qaeda in Afghanistan: sono contro la Chiesa. Il progetto è intimidire i cristiani”.

Vivere il Vangelo in Sudan è una scelta difficile, si corre il rischio del martirio, ha confessato monsignor Kussala: “Noi viviamo proprio in questo senso, perché stanno uccidendo la gente, bruciano le loro case, le chiese: questo è martirio”.

I cristiani vivono nella paura. “Ma noi non vogliamo morire: tutto questo rafforza la fede della gente, la gente continua a venire in chiesa”.Essere segno di pace e di riconciliazione è testimoniare il Vangelo in una terra che perseguita i cristiani: “Questo è il nostro motto, continuare a vivere la riconciliazione e la pace. Dopo sei secoli, il cristianesimo è stato praticamente distrutto nel Nord del Sudan, e noi ne soffriamo in nome del Signore”.Pensando alla situazione della sua Diocesi e al conflitto del Darfur, monsignor Kussala ha chiesto aiuto alla comunità internazionale, ma ha anche detto “Abbiamo bisogno dei Buoni samaritani della Sacra Bibbia”.

“Vogliamo i Buoni samaritani: i nostri fratelli, i nostri amici nella comunità internazionale possono venire in nostro aiuto. Ma più ancora di questo, chiediamo preghiere, tante! Per noi, affinché possiamo essere forti e proseguire su questo cammino così difficile. Ma con il Signore, lo sappiamo bene, alla fine vinceremo!”, ha concluso.
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 12:58
Africa schiavizzata dal potere del denaro. L’appello dei Padri sinodali: annullare il debito è un atto di giustizia, non di carità

Il
Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace, lavora oggi alla preparazione delle Proposizioni finali. Le diverse bozze verranno consegnate alla segreteria generale del Sinodo, che provvederà poi ad unificarle ed emendarle. Il documento finale sarà, quindi, sottoposto al voto dell’Assemblea. Intanto, tra le varie proposte avanzate fino ad ora dai Padri Sinodali, spicca quella di annullare il debito estero dell’Africa. “Sopprimerlo, puramente e semplicemente, non è più un atto di carità, ma di giustizia”, ha detto in Aula il cardinale Bernard Agré, arcivescovo emerito di Abidjan, in Costa d’Avorio. “L’attuale Sinodo – ha continuato il porporato - dovrebbe considerare questo problema dell’annullamento dei debiti che incidono in modo troppo pesante su alcuni popoli”. Ma ascoltiamo lo stesso cardinale Agré al microfono di Paolo Ondarza:

R. – Sono debiti così grossi, che mai i popoli saranno in grado di pagarli. E’ un modo per dire: “Voi non avete il denaro per pagare? Allora, date il petrolio, tutto quello che avete, le ricchezze naturali …”. E’ un contratto ingiusto! Si può dire che questi Paesi sono diventati prigionieri del denaro. E’ una sorta di schiavitù moderna. Secondo quanto affermano gli economisti, l'Africa per un dollaro ricevuto ne deve restituire otto!

D. – Quindi, il Sinodo può essere l’occasione per chiedere ancora una volta, e con più forza: “annulliamo il debito”?

R. – Sì, perché è una giustizia, non un atto di carità. Perché veramente abbiamo pagato! Perché continuare a pagare? Diamo ancora denaro a chi? E’ troppo pesante, per noi!

D. – Lei è arcivescovo emerito di Abidjan. Per quanto riguarda la Costa d’Avorio, in che termini è schiacciata da questa realtà del debito?

R. – Il debito della Costa d’Avorio è molto elevato; per questo debito, ogni anno dobbiamo pagare, pagare e pagare. Il debito riguarda almeno il 40 per cento del budget. Non c’è più denaro, e quindi non ci sono più fondi per l’educazione, per la sanità e per lo sviluppo … Cerchiamo di far sapere a chi va questo denaro, ma non è chiaro. Così, hanno ammazzato il Paese, con i debiti! Bisogna fermare questo: è troppo!

D. – Cambiando completamente argomento: tra i temi affrontati durante questo Sinodo, c’è sicuramente quello della famiglia in Africa …

R. – La famiglia è veramente la roccia sulla quale poggia la casa africana. Senza la famiglia non c’è storia: la famiglia è il luogo in cui si insegna la bontà, la condivisione; è veramente la scuola, la prima scuola, l’inizio di tutto. E poi la famiglia dà anche le vocazioni: in Africa ci sono ancora tante vocazioni. In Europa, in America, si sta distruggendo la famiglia e ora si vuole far passare la teoria del “gender”: ma è un errore grande!

D. – Faceva riferimento, appunto, alla teoria del genere, una teoria che – da quello che si è detto anche qui, ai lavori del Sinodo – sta permeando anche l’Africa …

R. – Noi abbiamo gli stessi film, le stesse parole pronunciate per radio … Quando non c’è la famiglia, la persona è lasciata a se stessa, non ha più riferimenti …

D. – Ma la famiglia tradizionale, in Africa, è ancora forte?

R. – Sì, è forte! E poi, il rispetto per gli anziani: non sono mai abbandonati! Quando si dice: “E’ vecchio!”, in Occidente significa che non conta più niente perché non ha più lavoro, perché non produce. Da noi, non è così: “vecchio” vuol dire “il capo”!

E in occasione del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, la città di Roma dedica un’intera giornata a questo continente. Lunedì prossimo, in mattinata, il Campidoglio, ospiterà un convegno internazionale dedicato alla cooperazione in Africa, mentre la sera alle 21.00, presso l’Auditorium della Conciliazione si terrà una serata di musica e cultura africana. Gli eventi sono organizzati dal Comune di Roma, in collaborazione con la Segreteria Generale del Sinodo, la Radio Vaticana, la Comunità di Sant’Egidio e Hope, l’iniziativa del servizio nazionale per la Pastorale Giovanile. La giornata del 19 ottobre vedrà la partecipazione di numerosi Padri Sinodali e del direttore generale della nostra emittente, padre Federico Lombardi. Il servizio di Isabella Piro:

Roma si mobilita per l’Africa e il 19 ottobre dedica a questo continente un’intera giornata. In mattinata, la Protomoteca del Campidoglio vedrà i lavori del Convegno internazionale intitolato “Africa: quale partnership per la riconciliazione, la giustizia e la pace?” alla presenza degli stessi Padri Sinodali. Alle 21.00, invece, musica e culture africane animeranno l’Auditorium di Via della Conciliazione, in una serata intitolata “Africa: croce in mezzo al mare”. Ma cosa significa questo titolo? Marco Brusati, direttore di Hope:

“Vuol dire che Africa è anche segno che Cristo è ancora presente ed è presente in un continente che soffre. E’ un continente oggetto della speciale attenzione di Cristo e quindi è un continente che è destinato a risorgere”.

Anche i musicisti, gli artisti e i comunicatori sociali, dunque, possono contribuire alla pace. Ancora Marco Brusati:

“Gli artisti fanno cultura, gli artisti non hanno confini. Vuol dire che l’artista in Africa, l’artista in Europa ha lo stesso compito, ha la stessa missione, ovvero quella di formare soprattutto le nuove generazioni ad essere persone e porre gli altri al centro del proprio cuore. Ciò significa che l’arte, in particolare la musica, entra nel cuore dei giovani, scava dentro e li rinnova profondamente, e li mette anche al centro di un pensiero che è questo: prendere coscienza che senza l’altro noi non ci possiamo salvare”.

“Richiamare l’attenzione del mondo sull’Africa” è l’obiettivo di questo progetto, ha spiegato il direttore generale della Radio Vaticana, padre Federico Lombardi, esprimendo l’auspicio che lo spirito dell’iniziativa non si esaurisca in breve tempo:

“Il nostro spirito è quello di far sentire tutti questi eventi come parte di un unico grande evento. Noi siamo tutti mobilitati e cerchiamo di fare rete, di metterci insieme, perché sia un tempo in cui noi e tutta la comunità cittadina ed ecclesiale ci mobilitiamo per l’Africa e perché questo possa anche continuare dopo”.

Protagonisti degli eventi del 19 ottobre saranno anche i giovani delle associazioni e dei movimenti missionari, per i quali l’Africa non è sinonimo di guerra e disperazione, ma è qualcosa di più. Ascoltiamo le loro voci:

R. – È un continente con mille possibilità davanti a sé, ricco di vita e di passione per la vita.

R. – È una risorsa infinita che con tutte le sue peculiarità dovremmo imparare ad accogliere meglio.

R. – È un cuore che batte. E’ veramente un Paese pulsante di risorse dal punto di vista umano.

D. – Cosa si può fare, secondo te, per aiutare concretamente l'Africa?

R. – Bisogna rispettare anche la gente del posto. Promuovere un progresso con loro e non senza di loro, a loro discapito. Ci vuole un progetto vissuto e pensato anche con loro.

R. – Credo, incidere sulle politiche culturali. Credo che ci vogliano proprio persone che vadano a vivere in Africa, affinché possano conoscere anche un altro modo di investire nel quotidiano, nel lavoro.

R. – Per me si potrebbe fare molto, ad esempio, sostenendo i sacerdoti e i missionari, coloro che spendono la loro vita in questi Paesi, perché le molte difficoltà che incontrano dal punto di vista pratico potrebbero condizionarli nella loro attività più propriamente pastorale e spirituale, che è poi quella che può davvero incidere dal punto di vista sociale.
E tra gli artisti che animeranno l’evento, anche il gruppo degli “Whitest”: sei ragazzi bianchi che cantano la musica “nera” per eccellenza, quella gospel. A dimostrazione che l’Africa riguarda tutti e che tutti possiamo fare qualcosa per l’Africa.

© Copyright Radio Vaticana
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 19:27
Sette giorni di sinodo

Passa per l'Africa il futuro del pianeta


La cattiva coscienza del mondo nei confronti dell'Africa, dopo il secondo sinodo speciale che in Vaticano è entrato nell'ultima settimana di lavoro, potrebbe non avere più alibi. Dalla relazione del cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson che ha riassunto le fasi salienti del dibattito, ampio e impegnativo, e dall'intervento di Jacques Diouf, direttore generale della Fao, è apparsa chiara l'urgenza di far sedere l'Africa alla pari intorno ai tavoli dove si disegnano le strategie per il pianeta. Ne va del futuro di tutti.
Si deve infatti avere chiara coscienza che l'Africa rimane "essenziale nello sviluppo economico del pianeta", ma il suo potenziale minerario ed energetico "non diventerà realtà, se non sarà messo al servizio dell'emancipazione economica delle sue popolazioni, se l'Africa non si libera dal giogo della fame e della denutrizione". Il sinodo è apparso così un ambito neutro dal quale è stato rilanciato l'allarme decisivo per il futuro della terra e dei suoi abitanti; sconfiggere anzitutto la fame perché è giusto e perché è possibile. Evaporata colpevolmente per egoismi e incuria dei Paesi impegnati nel vertice del Millennio la data del 2015 quale traguardo per dimezzare la fame nel mondo, davanti ai padri sinodali Diouf ha indicato il prossimo vertice mondiale sulla sicurezza alimentare, il 16 novembre a Roma, come un'occasione per creare un consenso allargato sullo sradicamento definitivo della fame. Un obiettivo raggiungibile e tecnicamente possibile entro il 2025.
Considerando la portata della sfida della fame all'umanità, l'Africa non può continuare a restare fuori della porta, ma deve entrare con piena dignità e consapevolezza nelle strategie economiche e politiche mondiali. La fame, infatti, rappresenta tuttora "la più drammatica e intollerabile di tutte le lacerazioni" vissute nel continente africano. Lo stesso Diouf avverte che qualsiasi impegno per la giustizia e la pace in Africa è inscindibile da un'esigenza di progresso nella realizzazione del diritto all'alimentazione per tutti.
Del resto le voci che si sono levate nel sinodo sulla possibilità di liberare ogni Paese e la loro stessa terra dalla fame documentano il realismo dei padri sinodali sia davanti alle contraddizioni che rallentano lo sviluppo africano, sia davanti alle responsabilità e agli egoismi dell'Occidente nei confronti dell'Africa.
I vescovi hanno assunto una responsabilità nuova nei confronti della Chiesa universale e delle politiche finora registrate nel mondo verso l'Africa. Hanno aperto, ad esempio, una prospettiva costruttiva per risolvere la questione dell'immigrazione africana, diventata frequente tragedia nelle acque del Mediterraneo. In generale hanno chiesto pari dignità per tutti gli africani, sani o malati, lavoratori e profughi, convinti che sulla base dei diritti umani si registra un progresso dei doveri nei Paesi africani e in quanti stabiliscono con essi rapporti culturali, politici e commerciali. Molte voci si sono levate nel sinodo "per domandare l'arresto delle fabbriche che costruiscono armi e alimentano i conflitti in Africa".
Ma, "dopo i conflitti per territori vitali e per lo sfruttamento delle miniere, è la guerra dell'acqua che si profila all'orizzonte. Occorre prevenirla - si legge nella relazione del cardinale Turkson - restando vigili sul degrado ambientale a causa del riscaldamento climatico. I padri sinodali riconoscono che le cause dei conflitti armati in Africa non sono dovute al tribalismo, ma alla bramosia delle multinazionali e al loro desiderio di appropriarsi in modo esclusivo di giacimenti strategici:  è questo a generare i conflitti". Essi incoraggiano, perciò, la messa in atto di quadri giuridici internazionali "per garantire un controllo delle multinazionali e delle industrie estrattive transnazionali".
L'analisi dei fenomeni sociali ed economici è stata accompagnata da un'altrettanto esigente analisi della situazione spirituale africana. Si è chiesto a gran voce un di più di Vangelo per rendere la Chiesa cattolica, in ogni sua componente, "trasformata dal di dentro", condizione questa indispensabile per essere sale e luce del continente.
Sarà così possibile una missione apostolica in armonia con le culture africane e con le esigenze trasformative del Vangelo che liberi la popolazione da ogni paura, dialoghi a tutti i livelli, includa nello sviluppo la questione ambientale, difenda e promuova la donna considerandola la vera risorsa della società e della famiglia, assicuri una conversione permanente tramite una formazione solida in ogni campo:  fede, catechesi, morale, media, cultura dell'amore, pace, giustizia, riconciliazione, buongoverno.
Davanti al sinodo resta ora l'ultima sfida:  canalizzare tutta la ricchezza del lavoro svolto in proposte pratiche da presentare al Papa perché le trasformi in indirizzi operativi per tutta la Chiesa.

c. d. c.


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 19:29


La bozza presentata ai padri sinodali

Un messaggio che farà bene al continente africano


Un messaggio che farà molto bene all'Africa. Giudizio positivo pressoché unanime per il Nuntius, presentato sabato mattina 17 ottobre, in bozza, durante i lavori della sedicesima congregazione generale. 

Nell'introdurre la lettura della bozza del messaggio monsignor John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, presidente della commissione che si è occupata della redazione, ha riproposto l'importanza dell'argomento intorno al quale si è sviluppata la discussione sinodale. Nonostante in tutti questi anni sia stato profuso un notevole impegno e nonostante le considerevoli conquiste tecnologiche, povertà, malattie e fame ancora uccidono migliaia di persone nel mondo, in Africa in maniera impressionante.

Naturale dunque che l'appello ricorrente in aula sia stato in questi giorni, ma sabato mattina in modo ancor più evidente, quello ad aiutare presto e concretamente l'Africa, perché la gente continua a morire ogni giorno e sempre più numerosa. Comune identità di vedute anche per quanto riguarda le cause delle situazioni drammatiche in cui versano molti Paesi. Si tratta di un duplice ordine di responsabilità:  gruppi di pressioni esterne all'Africa, capaci di imporre linee ideologiche e scelte economiche compiacenti per i propri interessi egoistici; uomini di governo africani facilmente corruttibili, del tutto insensibili alle sorti delle loro popolazioni, avidi di facili guadagni.

Ma se nel messaggio questo quadro sarà rimarcato, come chiesto dall'assemblea sinodale anche nei ventisei interventi liberi di questa mattina, con altrettanta chiarezza si dovrà delineare la responsabilità pastorale della Chiesa chiamata ad assistere il popolo di Dio che è in Africa.

Le potenzialità ci sono, perché si tratta di una comunità ecclesiale viva e vivace, che si trova, tuttavia, di fronte a una grande difficoltà:  quella di comunicare ciò che di bello e di buono riesce a fare. Questo perché si è fatto poco sino a oggi - e al Messaggio del sinodo si chiede di ribadire la necessità di un'inversione di tendenza in questo senso - per cercare uno sbocco nel mondo dei media. Se non si presterà attenzione all'importanza che la comunicazione ha assunto oggi, sarà inutile anche continuare a lamentarsi perché i giornali parlano solo delle disgrazie dell'Africa e mai delle tante ricchezze morali e spirituali che la gente africana riesce a esprimere.

Proprio in questo senso vanno le congratulazioni che il sinodo rivolge pubblicamente a quei tanti Paesi africani che, da diversi anni, sono usciti dal clima di violenza e di guerra civile che aveva sconvolto la popolazione e sono stati capaci di intraprendere, con successo, la strada della vera democrazia. La conoscenza di questi successi - ne sono convinti i padri sinodali - sarebbe sicuramente un ottimo incentivo per tutti quei Paesi che invece ancora oggi convivono con la violenza. Sono stati fatti i nomi della Somalia, dell'Uganda settentrionale, del Sudan meridionale ed è stata evocata la tragicità della situazione di milioni di persone nella regione dei Grandi Laghi.

A quanti hanno in mano le sorti di questi popoli, attraverso il messaggio si potrebbe chiedere una piena assunzione di responsabilità. Anche se a farlo dovrebbe essere la stessa comunità internazionale, perché la conseguenza negativa di questo comportamento deplorevole, è la denuncia del sinodo, è davanti agli occhi del mondo intero:  non solo povertà e morte violenta o per fame, ma anche recrudescenza di malattie letali, tra le quali si chiede di inserire, oltre all'Aids, anche malattie "storiche" come la malaria, che colpisce oltre duecentocinquanta milioni di persone, o la tubercolosi, che affligge oltre duecento milioni. L'Hiv infetta trenta milioni di individui, anche se causa ancora il maggior numero di vittime.

Durante la congregazione l'arcivescovo Eterovic ha presentato ai padri sinodali il libro di Gianfranco Svidercoschi Un Papa che non muore dedicato a Giovanni Paolo II.


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 19:32


Le risposte di Jacques Diouf al Sinodo dei vescovi sull'Africa

La fame non dipende dall'aumento di popolazione


Roma, 17. Le cause del sottosviluppo economico dell'Africa e la volontà di impedirlo, la questione del rapporto tra popolazione e sviluppo, e quella della necessità o meno degli organismi geneticamente modificati (ogm) nella lotta alla fame, sono stati i principali argomenti delle risposte fornite dal direttore generale della Fao, Jacques Diouf, alle domande rivoltegli dai padri sinodali dopo l'intevento svolto nel pomeriggio di lunedì 12 ottobre.

Sulla teoria di Malthus, che lega la possibilità di garantire l'alimentazione al controllo delle nascite, Diouf ha detto che "l'errore di base è non prendere in considerazione scienza e tecnologia. Se si accetta il principio che la domanda crescerà esponenzialmente e che le risorse cresceranno aritmeticamente, ne consegue che si accetta di non avere alcuna influenza sulle risorse". Secondo Diouf, invece, "i risultati della ricerca hanno mostrato che si può ottenere il doppio, il triplo, il quadruplo di produttività dallo stesso terreno e incrementare la produttività per persona". In merito, il direttore della Fao ha fornito alcuni dati:  "In alcuni Paesi - ha detto - tra il 2 e il 4 per cento della popolazione produce abbastanza per soddisfare la domanda interna e le esportazioni. In altri, l'80 per cento non riescono a produrre per tutto il Paese. È una questione di numeri? No:  non è una questione di popolazione, ma di mezzi usati per essere efficaci e produttivi e questi mezzi sono basati sugli investimenti in infrastrutture, in attrezzature, in accesso a differenti stimoli alla produttività e alla competitività. Non è una questione di popolazione:  questa non è una scusa".

Sulla volontà di impedire il sottosviluppo dell'Africa Diouf ha sottolineato come la Fao abbia da tempo denunciato che nelle ultime due decadi c'è stata un'evoluzione dell'agricoltura che non è stata favorevole ai piccoli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo. "Ho ricordato a questo augusto consesso - ha detto ai padri sinodali - che i Paesi sviluppati garantiscono annualmente ai loro agricoltori sussidi per 365 miliardi di dollari e che in queste circostanze i produttori africani non possono competere".

Sugli ogm, Diouf ha sostenuto che quanti vanno in Africa a dire che possono salvarci sono dei venditori di sogni:  "Onestamente - ha detto - devo chiedervi:  qual è il nostro problema? Solo il 7 per cento delle terre coltivabili sono irrigate, il 4 per cento nell'Africa subsahariana, rispetto al 38 per cento in Asia". "In alcuni casi - ha detto ancora Diouf - siamo obbligati a paracadutare cibo perché non ci sono strade per raggiungere le popolazioni e non parliamo di quanto occorre fare per aiutare i contadini a far arrivare i loro prodotti ai mercati? Non parliamo del fatto che perdiamo tra il 40 e il 60 per cento delle produzioni agricole per impossibilità di immagazzinarle? Parliamo invece di ogm che sono sotto il controllo di compagnie che li possiedono e che attraverso le regole dell'Organizzazione mondiale dei commercio sono protette nell'uso delle loro risorse?".


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 19:54
Al Sinodo per l'Africa la bozza del Messaggio finale. Il vescovo di Abuja: diamo voce a chi non ha voce

Alla presenza di Benedetto XVI, si è svolta stamani la sedicesima Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. A chiudere la seconda settimana di lavori è stata la presentazione della bozza del Messaggio finale dell’Assemblea. Il documento provvisorio verrà poi rivisto, sottoposto al voto dell’Aula e presentato ufficialmente venerdì prossimo. Ce ne parla Isabella Piro:


Ricco, pieno di speranza, che colpisce al cuore e potrà essere cibo per la fede di molti africani.
I Padri Sinodali hanno definito così il Messaggio provvisorio presentato stamani in Aula. Un testo letto da quattro voci diverse in quattro lingue diverse: inglese, italiano, francese e portoghese. Quattro lingue e quattro voci, dunque, ma per un unico contenuto cruciale: il tema della riconciliazione, della giustizia e della pace è della massima urgenza in Africa e deve permeare tutto il continente.

Il Messaggio provvisorio del Sinodo parte da qui e le linee tracciate finora, e in attesa della versione definitiva, fanno riferimento all’importanza di pace e giustizia nella famiglia, nei confronti delle donne, in un mondo politico che deve essere al servizio del bene comune; fanno riferimento al bisogno di tutelare i bambini e l’ambiente, alla necessità di sviluppare la comunicazione sociale della Chiesa e di cambiare i principi che regolano la finanza mondiale.

La bozza di Messaggio guarda anche alla preparazione culturale dei fedeli laici, alla necessità di sostegno e di formazione per i giovani, che rappresentano più del 60% delle popolazione africana, e alla cooperazione in tutto il sud del mondo. Nel testo provvisorio, i Padri Sinodali pensano, poi, ai tanti migranti africani nel globo, riflettono su una maggiore diffusione della Dottrina Sociale della Chiesa, rendono omaggio ai tanti missionari, in Africa e nel resto del mondo, che si prodigano per il cristianesimo.

Il Messaggio ancora in bozza, inoltre, si sofferma sulla povertà, grande ostacolo alla pace, sulla pandemia di Aids e sull’importanza del dialogo interreligioso ed ecumenico, da coltivare sempre, perché l’unità è fonte di grande forza.

Infine, i Padri Sinodali invitano l’Africa a non disperarsi perché il continente è ricco delle benedizioni di Dio e ribadiscono che il destino del Paese è nelle mani degli africani stessi e che tocca soprattutto a loro dare nuovo slancio al continente.

Con la presentazione della bozza del Messaggio finale, dunque, si è chiusa questa mattina la seconda settimana di lavori del Sinodo dei Vescovi. Sui contenuti e le finalità di questo documento, la cui versione definitiva sarà votata e illustrata venerdì prossimo, Paolo Ondarza ha intervistato il presidente della commissione per il messaggio, mons. John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja in Nigeria:

R. – Nel messaggio non c’è nessuna intenzione di riassumere tutto il lavoro del Sinodo. La seconda cosa è il linguaggio che abbiamo cercato di adottare: il linguaggio di un Messaggio che viene indirizzato alla nostra gente. Il Messaggio, inoltre, è stato indirizzato a diverse categorie della comunità africana non soltanto della Chiesa. Spero che ciò che abbiamo da dire riguardo ai responsabili delle cose pubbliche africane venga da loro ascoltato perché così siano veramente responsabili della situazione in Africa adesso e allora si assumano la responsabilità.

D. – Quindi c’è un’esortazione in questo senso…

R. – Sì, l’esortazione è dire: guardate ciò che l’Africa è, certamente non è qualcosa di cui possiamo essere fieri. Non possiamo continuare a scaricare le colpe altrove. Sì, ci sono delle ingerenze esterne, delle responsabilità politiche dei grandi poteri, però questo non può essere il pretesto per non fare qualcosa. Poi abbiamo dovuto parlare fortemente contro tutto un modo di fare degli uomini politici. Ci sono strutture democratiche che vengono completamente sovvertite.

D. – I cosiddetti colpi di Stato silenziosi…

R. – Esattamente. I dittatori che stanno lì e che organizzano le elezioni ogni quattro anni e che non dicono niente: la comunità internazionale continua a far finta di non vedere niente.

D. – Tutto apparentemente sembra svolgersi democraticamente…

R. – Ma la gente stessa che subisce le conseguenze di questo sa bene di non aver scelto il proprio governo. Nel Paese dove qualche tentativo modesto è stato fatto per avere un sistema democratico decente si vede già il risultato positivo, sia per quanto riguarda la pace nel Paese sia anche nei risvolti economici per il popolo. Se un Paese è ben organizzato gli altri lo tratteranno con dignità.

D. – Dunque il messaggio è uno strumento da offrire sia alla Chiesa ma anche alle società africane…

R. – Addirittura alla comunità internazionale perché non si deve dimenticare che questa non è una riunione di vescovi africani che si tiene a Roma, questo è il Sinodo dei Vescovi.

D. – Come formulare un messaggio che sia adattabile alle variegate situazioni in Africa? Come rivolgersi a tutte le singole realtà in un unico messaggio?

R. – Certamente è possibile. Tutto il discorso su cosa vogliono dire riconciliazione, pace, giustizia, è universale per tutti, non soltanto per l’Africa. Quando un Sinodo come questo si riunisce, i problemi di una parte sono i problemi di tutti. Questo vuol dire Sinodo.

D. – Si cammina insieme…

R. – Insieme, camminiamo insieme. La cosa bella nel Sinodo è che può anche succedere che la Chiesa in determinate situazioni non possa parlare ma tutti noi possiamo parlare per loro. Le cose che i vescovi non possono dire a casa, il Sinodo le può dire per loro. Diciamo in inglese: giving voice to the voiceless, dare voce a chi non ha voce.

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S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 16:32
Sinodo per l'Africa. Un vescovo dell'Uganda: continente sfruttato da multinazionali e poteri locali. Mons. Eterović: puntiamo sulle donne

I lavori del
Sinodo per l'Africa continuano a porte chiuse. Oggi è in programma l'unificazione delle Proposizioni da parte del relatore generale, dei segretari speciali e dei relatori dei Circoli Minori. Tra i tanti temi emersi finora, anche quello delle preziose risorse del continente africano, spesso causa di sfruttamento a vantaggio di interessi non africani. Il concetto è stato più volte viene ribadito in questi giorni nell'Aula del Sinodo. Lo ha ricordato anche mons. Giuseppe Franzelli, vescovo di Lira in Uganda. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

R. – C’è una presenza di gente che viene dal di fuori ancora purtroppo a sfruttare l’Africa e trova evidentemente dei complici per cui alla fine chi ci lascia la pelle e ci perde è la popolazione, il popolo, la gente comune.

D. – Quindi, interessi economici non africani alla base della povertà e del disagio africano…

R. – Sì, che si sposano evidentemente molto bene con gli interessi di alcune élite di potere locale. Questa è una miscela micidiale che fa esplodere i conflitti oppure mantiene in povertà la maggior parte della gente in Africa.

D. – Il Papa ha sottolineato, oltre alle risorse materiali che fanno tanto gola ai Paesi industrializzati e alle multinazionali, anche la grande risorsa morale dell’Africa, tutto ciò che l’Africa può dare al resto del mondo: forse se ne parla troppo poco…

R. – Se ne parla poco, è vero e bisognerebbe appunto dare più voce a questo. Oggettivamente risorse tradizionali, tesori dell’Africa, come il senso della signoria di Dio, il senso della vita, vengono davvero minate e messe in pericolo. Quindi il discorso del materialismo che viene importato diventa un vero pericolo per l’Africa di oggi, con il rischio di perdere di vista quelle che sono le proprie tradizioni e radici spirituali che possono e dovrebbero veramente aiutare anche il mondo intero a respirare meglio. Il Papa ha parlato dell’Africa come un polmone di spiritualità per la Chiesa.

D. – Tra i valori messi in pericolo c’è anche quello della famiglia?

R. – Basti pensare all’invasione di preservativi o allo scandalo suscitato dalle parole del Papa nel suo viaggio in Africa dietro il quale, anche poco maldestramente, si nascondevano evidentemente interessi di industrie farmaceutiche internazionali. Questo però purtroppo trova eco anche in governanti africani per portare avanti certe politiche che vanno contro i valori africani.

D. - Quanto la Chiesa e quanto la fede può essere il centro e l’anima di una vera inversione di tendenza in Africa?

R. - Per me questo è il fatto fondamentale, il cuore, il motore dello sviluppo vero e integrale dell’uomo.

D. – Quali difficoltà vive la Chiesa in Uganda?

R. – Posso parlare in prima persona della Chiesa locale di Lira, nel nord dell’Uganda. E’ una popolazione che sta uscendo ora a fatica da un tunnel di 23 anni di guerriglia del Lord’s Resistance Army (l’Esercito di Resistenza del Signore), un popolo che ha tante ferite che non sono solo quelle fisiche - gente che è stata mutilata, i bambini soldato - ma ferite anche morali - famiglie disgregate, l’esperienza della vita nei campi di concentramento e nei campi di sfollati - e che ora si trova con questa povertà di energie, un po’ dissanguata ad affrontare la sfida della ricostruzione. Bisogna ricominciare da capo un po’ tutto. C’è speranza, c’è volontà di continuare a camminare insieme e soprattutto c’è fiducia nella presenza di un Dio che non ci lascia soli.

D. – La Chiesa ugandese ha fiducia in questo Sinodo?

R. – Siamo venuti con speranza, con aspettative: realisticamente sappiamo che non tutto potrà essere realizzato. Basta pensare all’esperienza del primo Sinodo. Siamo ancora ben lontani dal costruire questa famiglia di Dio, ci sono ancora tante divisioni tra fratelli e sorelle, l’incapacità a riconoscersi come fratelli: c’è ancora molto da fare, ma abbiamo fiducia e speranza che si possa crescere e per questo siamo qui.

Ma cosa fare per ridare speranza all'Africa? Luca Collodi lo ha chiesto a mons. Nikola Eterović, segretario generale del Sinodo dei Vescovi:

R. – In primo luogo occorre rilanciare il cammino della buona notizia che ha avuto una fase molto importante nel primo Sinodo africano, 15 anni fa. Dunque si riprende questo cammino con rinnovato vigore tenendo conto delle attuali situazioni religiose, culturali, sociali e politiche. Si potrebbe parlare di una nuova evangelizzazione del continente africano nei contesti attuali anche prendendo in considerazione le sfide della globalizzazione mondiale. Nel Sinodo è stata molto sottolineata l’importanza di portare avanti l’idea di Chiesa come famiglia di Dio puntando sempre più agli ideali alti, cioè alla santità. Una Chiesa famiglia di Dio che è aperta a tutti, soprattutto in un momento in cui l’istituzione familiare è un po’ messa in crisi da varie ideologie e movimenti non solo nel mondo intero ma anche in Africa. Poi ovviamente la Chiesa, la promozione umana dunque, ed è stato sottolineato ancora di più che bisogna lenire le ferite dovute alla povertà, alle malattie, alle violenze e alle guerre, lottando anche contro le nuove forme di colonialismo e di schiavitù. Le principali vittime di queste schiavitù sono i bambini e le donne.

D. – Lei, questa mattina, ha partecipato al Convegno in Campidoglio sulla giustizia e la pace in Africa. Lei che risposta offre?

R. - Ci sono iniziative nuove e concrete: l’Africa non può essere lasciata sola e ne va del bene anche dell’Europa e del mondo. Occorre potenziare la buona volontà che esiste e puntare molto sull’educazione. E’ stato molto sottolineato l’aspetto dell’importanza delle scuole cattoliche in vari Paesi dell’Africa che sono in grado di educare una nuova generazione anche a livello politico e sociale, giovani che si impegneranno anche in politica come una missione per promuovere il bene comune. Altro campo molto importante è quello della sanità, la lotta contro l’Aids e contro altre pandemie, la tubercolosi e la malaria, per cui ogni anno muoiono migliaia di persone. Poi ci sono anche progetti concreti di solidarietà, di promozione umana. Possiamo pensare quello che la Chiesa già da anni fa con la Fondazione per il Sahel ma anche piccoli progetti per sviluppare anche l’ambiente rurale dell’Africa. La Chiesa facendo tutto questo non dimentica che la sua priorità è l’evangelizzazione: annunciare la buona notizia di Gesù Cristo morto e risorto, presente anche in Africa, l’unico in grado di cambiare il cuore di tutti e di fare il numero più grande possibile di agenti attivi della riconciliazione della giustizia e della pace.

D. – Il Sinodo guarda anche al ruolo dei laici in Africa...

R. – Molto. Possiamo anche dire che si è molto occupato della posizione della donna, che spesso in varie situazioni è vittima. Le stesse donne presenti, sia laiche che religiose, hanno sottolineato questo aspetto che è stato accolto dai pastori. Io credo che anche da questo Sinodo i laici avranno più coscienza del loro ruolo insostituibile, soprattutto dove il clero non può arrivare, ma di importanza capitale è la donna in Africa e dunque la Chiesa punta molto sulle donne. Abbiamo già varie istituzioni di donne cattoliche che fanno un’opera eccellente e dal Sinodo trarranno ulteriore appoggio e coraggio per continuare la loro opera nella Chiesa e nella società, perché spesso si è detto che la donna ha anche una capacità speciale di essere agente di riconciliazione magari lì dove gli uomini falliscono.
(Montaggio a cura di Maria Brigini)

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S_Daniele
00lunedì 19 ottobre 2009 18:38



Incontro con i padri sinodali promosso dal movimento dei Focolari

Storie di speranza dall'Africa


Roma, 19. Segni di speranza dall'Africa. Squarci di vita toccati dal Vangelo che mostrano il volto nascosto di un continente. È quanto è stato offerto ieri pomeriggio nel corso dell'incontro promosso dal movimento dei Focolari - in collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio - con i padri sinodali e con quanti - esperti e uditori - sono in questi giorni impegnati nei lavori del Sinodo dei vescovi per l'Africa.
Una carrellata di testimonianze che parte da Fontem, sperduta regione nella foresta camerunense. Terra del popolo bangwa, che diventa terra di pace. "Prefetti e magistrati - dice una donna bangwa, Mary Ategwa - notano una diminuzione dei processi in tribunale. Diminuiscono i divorzi. C'è più dialogo nelle famiglie. Le donne che vendono al mercato si rifiutano di imbrogliare i clienti. Tanti si sentono spinti a fare il primo passo verso la riconciliazione e l'amore fraterno". Si tratta - aggiunge - dei "frutti della nuova evangelizzazione di cui sono primi protagonisti proprio i re, detti fon, e i capi villaggio. È un'ondata di vita nuova che nasce da un solenne patto d'amore reciproco, fatto da Chiara Lubich nel 2000 a Fontem con due capi tribù. Un patto a cui avevano aderito le migliaia di persone presenti nella grande spianata davanti al palazzo reale. È l'impegno a sanare sempre ogni screzio e conflitto".
In nove anni quest'impegno evangelico ha raggiunto varie altre tribù del Paese. Tanto che - come afferma Maria Voce, la presidente dei Focolari, raccontando di un suo recente viaggio in terra africana - il fon di Fontem, Lucas Njufua, le esprime pubblicamente la gratitudine del suo popolo "non solo per l'ospedale, le scuole e le molte opere portate avanti dal movimento, ma soprattutto per questa corrente d'amore e d'unità che sta cambiando la sua gente".
Così, mentre al sinodo emerge la domanda di una più profonda inculturazione del Vangelo, una docente di Sacra Scrittura, Maria Magnolfi, parla dei frutti del centro per l'inculturazione nato nel 1992 a Nairobi. Si hanno - racconta - "occhi nuovi d'amore con cui accostarsi alle diverse culture africane, nuova consapevolezza delle proprie radici, maggiore incidenza nell'annuncio del Vangelo". E non ultima una profonda "inter-inculturazione tra le culture africane stesse ricche di diversità etniche".
La piaga della corruzione mina tante società africane. Ma non manca chi la combatte dal di dentro. Patience Mollé Lobé, prima donna camerunese ingegnere del genio civile a entrare in un ministero dei lavori pubblici, parla delle non poche difficoltà incontrate, ma superate, nell'impegno di non cedere alle pressioni. "Le imprese che erano convinte di dover comprare qualcuno per far andare avanti le loro pratiche, ora sanno che in qualche parte del Camerun si lavora senza corruzione". E non è sola:  "Con gli altri amici che condividono questa spiritualità e che lavorano nell'amministrazione o in politica ci incoraggiamo. Crediamo fortemente che il nostro Paese andrà avanti solo con un cambiamento di mentalità. Ciò che frena è la paura di perdere il posto di lavoro, di non aver da mangiare per il domani. Ma le esperienze che Dio ci fa fare ci convincono che Dio guida la storia e che la sua Parola ha una potenza straordinaria in qualunque ambiente ci troviamo".
Da una coppia del Rwanda, i Gatsinga, genitori di otto figli, di cui quattro adottati, emergono quadri di vita quotidiana controcorrente. Spicca la nuova considerazione data, nella vita di famiglia, alla donna. Così come dal racconto di un giovane keniota, John Kimani, vengono in luce piccoli-grandi episodi:  come la rinuncia a un posto di lavoro più vantaggioso per farlo occupare da un amico che vive nelle baraccopoli, atto che aprirà una catena di sviluppi positivi. O la capacità di perdonare e riannodare rapporti con chi l'ha derubato.
Più volte nell'aula sinodale è risuonata la domanda d'una più profonda formazione spirituale dei sacerdoti. Come racconta Innocent Thibaut, sacerdote burundese, seminaristi d'etnie diverse, durante la guerra hanno saputo affrontare anche il martirio, pur di non tradire gli amici. "Colpiti dagli effetti della spiritualità dell'unità, i vescovi del Kenya propongono di fare qualcosa per la formazione di sacerdoti. Nasce così un Centro di spiritualità nella cittadella dei Focolari nei pressi di Nairobi, aperta a sacerdoti e seminaristi di tutta l'Africa". Studio e riflessione, ma innanzitutto Vangelo vissuto nel lavoro manuale, nei contatti personali, nella comunione delle esperienze.
Infine, i temi della pace e della lotta all'aids. La pace è lotta interiore per conformarsi a Gesù. Ma è anche dialogo, ascolto, amicizia con i poveri che diventa metodo per la mediazione nei conflitti e nella prevenzione della pandemia. Lo testimoniano Mario Giro, della Comunità di Sant'Egidio, ricordando l'esperienza di pacificazione per il Mozambico, e Kpakilé Felemou, responsabile in Guinea del progetto Dream contro l'aids.
A conclusione dell'incontro, nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, la celebrazione eucaristica "per la pace e la giustizia in Africa" presieduta dal cardinale Roger Etchegaray, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e del Pontificio Consiglio "Cor Unum", concelebrata da settanta vescovi e altrettanti sacerdoti, quasi tutti originari del continente africano.


(©L'Osservatore Romano - 19-20 ottobre 2009)
Cattolico_Romano
00martedì 20 ottobre 2009 17:23
Sinodo dei vescovi per l’Africa: presentato l’elenco unico delle proposizioni finali. Appello per la pace nella regione dei Grandi Laghi. Con noi, il vescovo burundese Joachim Ntahondereye

Si avvia verso le conclusioni il
Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. Stamani, nel corso della 17.ma Congregazione generale, è stato presentato l’elenco unico delle Proposizioni finali. Il documento, ancora provvisorio, verrà emendato e messo ai voti nei prossimi giorni. Alla presenza di Benedetto XVI, i Padri Sinodali hanno inoltre lanciato un appello per la pace nella Regione dei Grandi Laghi. Il servizio di Isabella Piro:

Un appello sofferto e pressante perché cessino le violenze nella Regione dei Grandi Laghi. È quanto scrive la presidenza del Sinodo in una lettera indirizzata, tra gli altri, ai vescovi del Sudan, Paese che negli ultimi tempi ha visto l’orrore di cristiani crocifissi. "Non uccidere" è un comandamento scritto nel cuore dell’uomo, si legge nel testo. Il linguaggio delle armi sia sostituito da quello del dialogo.

E la pace e la riconciliazione prevalgono, naturalmente, nell’elenco unico delle proposizioni presentato stamani. Nel documento, ancora provvisorio, si definisce l’attuale Sinodo come “Sinodo della Pentecoste”, si chiede che la cooperazione ispiri la società e si guarda alla solidarietà pastorale.

Entrando nello specifico, i Padri Sinodali riflettono sul dialogo ecumenico ed interreligioso, in particolare con l’Islam. Sul modello della Giornata mondiale di preghiera per la pace, tenutasi ad Assisi nel 1986, la bozza di Proposizioni chiede il rispetto della libertà di culto e invita a non etnicizzare o politicizzare la religione. La libertà religiosa è un diritto fondamentale che va protetto e riconosciuto, dicono i Padri Sinodali: si restituiscano le chiese e le proprietà confiscate, si dica no al fondamentalismo.

Centrale anche il rapporto con le Religioni Tradizionali Africane, che non vengono rifiutate a priori, ma che devono essere studiate in comparazione con la teologia. Nel contempo, il Sinodo raccomanda che la Chiesa sia capace di affrontare l’esoterismo e le pratiche occulte.

Quindi, i Padri Sinodali guardano al progresso concreto dell’Africa: in quest’ambito, si chiede di fermare la “fuga dei cervelli” istituendo centri di eccellenza accademica, si auspica lo sviluppo di un programma di soppressione del debito estero, si sostiene il microcredito.

Poi, la grande pagina della Dottrina Sociale della Chiesa, che va studiata e diffusa a tutti i livelli. E spazio viene dato alla tutela dell’ambiente, nel momento in cui l’Africa vede una desertificazione senza precedenti, all’auspicio di un trattato internazionale sul traffico di armi e alla difesa dei diritti dei migranti, che non vanno criminalizzati.

L’elenco unico delle Proposizioni parla anche della globalizzazione, auspicando che essa sia etica e solidale e ribadisce che le risorse naturali dell’Africa devono essere gestite a livello locale, senza lo sfruttamento delle multinazionali.

Forte anche l’auspicio che la democrazia si diffonda in tutta l’Africa, che siano garantite elezioni libere, imparziali e trasparenti, che i fedeli laici vivano la loro vocazione anche in politica, mentre ai leader religiosi si chiede di restare “super partes”.

Il documento provvisorio si appella poi alla tutela della famiglia, spesso colpita dalla trivializzazione dell’aborto e dal disprezzo della maternità. In quest’ambito, si pensa ad una Federazione panafricana delle famiglie cattoliche. E di tutela si parla anche per le donne, i bambini, i giovani, i disabili, perché la loro integrazione nella Chiesa e nella società sia sempre più favorita.

Poi, le Proposizioni si soffermano sul problema dell’Aids, ribadendo che questa patologia è non solo una questione farmaceutica, ma è un’istanza di sviluppo integrale e di giustizia. L’aiuto pastorale viene richiesto, in particolare, per le coppie sposate contagiate, si ribadisce il "no" all’infedeltà e alla promiscuità, si condanna chi diffonde il virus Hiv come arma di guerra, si chiedono, per i malati africani, gli stessi trattamenti medici forniti al resto del mondo.

Quindi, attenzione viene riservata alla pena di morte, della quale si auspica l’abolizione totale, e ai detenuti, affinché non vengano violati i loro diritti. E pari attenzione viene riservata a seminaristi, per i quali si richiede l’accertamento delle loro intenzioni, e ai sacerdoti, perché siano immagine viva ed autentica di Cristo e vivano l’impegno alla castità e alla preghiera. L’ultima proposizione, invece, si sofferma sulla comunicazione: in particolare, si chiede che la Chiesa sia più presente nei mass media e che i giornalisti siano formati nell’etica.

Infine, i Padri Sinodali ringraziano il Secam (il Simposio delle Conferenza episcopali dell’Africa e del Madagscar) per i sui 40 anni di attività ed auspicano un rafforzamento del suo operato.

Questa mattina, dunque, i Padri Sinodali hanno levato un appello per la fine delle violenze nella Regione dei Grandi Laghi. L’area, che comprende Rwanda, Burundi Uganda e parte della Repubblica Democratica del Congo, della Tanzania e del Kenya, è divenuta negli ultimi decenni scenario di guerre civili che hanno causato situazioni di estrema povertà. Applaudita al Sinodo la proposta di convocare una Conferenza Internazionale sulla pace e la riconciliazione nella regione. A lanciarla è stato mons. Joachim Ntahondereye, vescovo di Muynga in Burundi. Paolo Ondarza lo ha intervistato.

R. – E’ un evento che dovrebbe coinvolgere tutte le Conferenze episcopali della regione, e poi avremmo anche la partnership della rete cattolica per l’edificazione della pace, che ha base in America. Ci hanno assicurato il loro appoggio: dobbiamo fare tutto il possibile, prima anche di gridare aiuto. E così, magari anche gli altri ci verranno in aiuto, perché vedranno che stiamo facendo tutto il possibile.

D. – Si tratta anche di realtà diverse tra loro, ma assieme possono riflettere sulla edificazione della pace, sulla fine delle violenze?

R. – Sì, sicuramente. Perché già è stato fatto tanto, a livello di ogni singola nazione, e magari gli altri non lo sanno … Per questo è importante mettersi insieme per scambiarsi le informazioni, ma soprattutto anche per mettere in piedi una struttura che ci aiuti a coordinare tutto ciò che tentiamo di fare. Anche perché sì, è vero, ci sono differenze ma ci sono anche fattori comuni a tutte le nazioni della zona e che quindi dobbiamo tenere in conto quando cerchiamo di costruire la pace.

D. - Dalla Regione dei Grandi Laghi ci giungono frequentemente notizie di violenze, povertà, guerre, talvolta notizie di difficoltà serie per la vita della Chiesa …

R. – Questo è vero, le difficoltà ci sono. La Chiesa è molto impegnata a livello di ogni singola nazione ma anche a livello regionale. C’è la “Secam” per la Repubblica Democratica del Congo, il Rwanda e il Burundi e poi, dall’altra parte c’è l’“Amecea” per la Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia, Sudan. Però ci rendiamo conto che le nostre problematiche vanno al di là dei confini di queste nostre due Conferenze. Lo abbiamo visto nelle guerre che si sono svolte e che si svolgono purtroppo ancora nella Repubblica Democratica del Congo: sono partite dall’Uganda, che appartiene all’Amecea e poi, quando si è trattato di negoziare, di cercare di porre fine a queste guerre, sono stati coinvolti questi Paesi. Per questo, anche a livello di Chiesa dobbiamo unirci, anche per quanto riguarda la lotta contro la povertà. Quindi, se noi andiamo avanti magari chiudendoci soltanto in queste strutture che abbiamo ereditato anche dalla colonizzazione, non potremmo mai riuscire a risolvere certi problemi.

D. – Le violenze che vengono compiuti anche contro i cristiani, mi riferisco alla situazione della Repubblica Democratica del Congo: qual è il significato?

R. – Non sono sicuro di avere tutte le chiavi di lettura che occorrono per poter interpretare la situazione, ma penso che non si tratti soltanto di colpire delle persone specifiche, quanto di far tacere l’istituzione come tale, perché purtroppo ci sono tanti gruppi e gruppuscoli armati che non accettano il lavoro della Chiesa, soprattutto quando denuncia le ingiustizie e gli atti di violenza che vengono commessi. Per questo, mirano a certe persone chiave per dire: se continuate su questa strada, anche voi correte il rischio di subire la stessa sorte.

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S_Daniele
00mercoledì 21 ottobre 2009 08:25
Dolore del Sinodo per la violenza nella regione dei Grandi Laghi

Lettera dell'assemblea ai Vescovi dei Paesi interessati



CITTA' DEL VATICANO, martedì, 20 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

I partecipanti al Sinodo per l'Africa hanno inviato una lettera per esprimere il loro dolore per la violenza che in questi giorni ha flagellato la regione africana dei Grandi Laghi, costringendo migliaia di persone ad abbandonare la propria terra.

A nome dell'assemblea sinodale, i presidenti delegati e il segretario generale hanno inviato una lettera di solidarietà ai presidenti delle Conferenze Episcopali di Sudan, Uganda, Ciad, Repubblica Democratica del Congo e Repubblica Centroafricana.

I Padri sinodali spiegano che in questi giorni di assemblee hanno saputo che nelle Diocesi situate nella regione dei Grandi Laghi “perdurano azioni belliche che producono distruzioni, violenze, morte tra la popolazione innocente”.

“Per salvare la propria vita, centinaia di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nei Paesi limitrofi in condizioni di estrema precarietà”, afferma il testo.

“Non mancano, poi, preoccupanti fenomeni di bambini soldato, di orfani, di mutilati di guerra e di persone con gravi problemi di salute fisica e psichica”, aggiungono i Padri sinodali.

“Di fronte a tale drammatica situazione”, i partecipanti al Sinodo, “riuniti sotto la presidenza del Santo Padre Benedetto XVI”, esprimono “la più viva comunione fraterna ai Vescovi delle Diocesi coinvolte in tali disumane sofferenze nei confronti della popolazione innocente”.

“Al contempo ci rivolgiamo a tutte le parti in causa implorando che quanto prima il linguaggio delle armi sia sostituto da quello del dialogo e delle trattative”, aggiunge il documento.

“Con il dialogo, nel rispetto reciproco e nella pace, tutti i problemi possono essere risolti. La guerra, invece, rende tutto più difficile e in particolare tenta di trasformare i fratelli in nemici da abbattere”, affermano.

“Fortificati dallo Spirito Santo, Spirito del Signore Gesù risorto, noi Padri sinodali ribadiamo il valore sacro di ogni vita umana. Il comandamento Non uccidere (Es 20, 13) non fa parte solamente del Decalogo, rivelazione di Dio raccolta nella Bibbia, bensì della legge inscritta nel cuore di ogni uomo che viene in questo mondo”.

“Non è lecito uccidere innocenti per alcun motivo sociale, politico, etnico, razziale o religioso. Il sangue degli innocenti grida vendetta di fronte a Dio che prima o poi dovrà giudicare anche coloro che hanno macchiato le loro mani con il sangue dei poveri, che sono i privilegiati di Dio”.

Il Sinodo, riunito a Roma per riflettere sulla riconciliazione, la giustizia e la pace, implora, “per intercessione di tutti i santi nati in Africa, il dono della pace perché si possa instaurare la giustizia ove è gravemente infranta e i cuori siano aperti alla grazia della riconciliazione con Dio e con il prossimo non solamente nella regione dei Grandi Laghi, bensì in tutta l’Africa”.


Kit di pronto soccorso in dono ai Padri sinodali

Servirà ai presuli in tutte le loro missioni sul campo



CITTA' DEL VATICANO, martedì, 20 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

Un kit sanitario di pronto soccorso contenente anche strumentazione medica di prima necessità. È questo il dono offerto, ai 275 Padri sinodali chiamati a partecipare alla II Assemblea speciale per l’Africa, dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari in collaborazione con l'Ambasciata della Repubblica di Cina (Taiwan) presso la Santa Sede.

I kit saranno consegnati questo martedì mattina in Vaticano da monsignor Nikola Eterović, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, durante una pausa dei lavori assembleari.

Per l'occasione, il Presidente del Dicastero, monsignor Zygmunt Zimowski, e l'Ambasciatore di Taiwan, Larry Yu-Yuan Wang, presenteranno due esemplari speciali degli stessi kit a Papa Benedetto XVI e al Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, che presenzieranno alla cerimonia.Il kit, che fra l’altro consente l'immediata verifica della pressione sanguigna e del battito cardiaco, è di dimensioni ridotte, circa cm.25x20x15, e perciò facilmente trasportabile.

"È stato studiato - spiega monsignor José L. Redrado, O.H., Segretario del Dicastero vaticano, - per poter essere di ausilio ai presuli in tutte le loro missioni sul terreno, spesso realizzate in condizioni di grande difficoltà e in ambiti poveri, se non privi, di infrastrutture sanitarie".

Una cassetta di pronto soccorso ma soprattutto “un segno di solidarietà e di comunione – conclude il Segretario del Pontificio Consiglio - con le popolazioni, anche quelle delle aree più remote”. 
S_Daniele
00mercoledì 21 ottobre 2009 14:27
Sinodo. Il vescovo del Cairo: rilanciare l'evangelizzazione per non ridurre le Chiese nordafricane a monumenti di archeologia cristiana

Lavori a porte chiuse, oggi, al
Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano sui temi di riconciliazione, giustizia e pace. Questa mattina i Padri sinodali si sono riuniti nella nona sessione dei Circoli minori per la preparazione degli emendamenti alle Proposizioni finali, che ieri sono state presentate in forma provvisoria. I testi saranno nel pomeriggio esaminati dal relatore generale, dai segretari speciali e dai relatori dei circoli minori. Intanto, dal vescovo caldeo del Cairo, in Egitto, mons. Yussef Ibrahim Sarraf, è giunto il forte appello a non permettere che le Chiese orientali e dell’Africa del Nord siano ridotte a “monumenti di archeologia cristiana”. Il presule chiede che sia proseguita con coraggio, anche oggi, l’opera di evangelizzazione iniziata da San Marco in Egitto. “Dobbiamo fare un grande mea maxima culpa” ha ammonito mons. Sarraf. Paolo Ondarza lo ha intervistato:

R. – L’evangelizzazione è iniziata dall’Egitto – la prima evangelizzazione – attraverso San Marco; e poi, giù fino alla Nubia, e lì si è fermata. Ecco perché dico il “mea maxima culpa” – nostra colpa – è che ci siamo fermati là: per motivi antropologici, storici e via dicendo.

D. - … e oggi è troppo tardi?

R. – Non è mai troppo tardi! Bisogna essere missionari, cioè andare a evangelizzare. E’ quello il mandato che abbiamo ricevuto dal Signore. Ci ha detto di andare a evangelizzare tutto il mondo: non una regione, ma tutto il mondo, fino alla fine dei tempi. E’ quello che dovrebbero fare le Chiese orientali cattoliche – ovviamente, secondo me.

D. – Andare ad evangelizzare oggi, soprattutto in determinate aree, richiede oltre ad una grande preparazione, un grande coraggio …

R. – Il coraggio non mancherebbe. Più che coraggio, io lo chiamerei “i doni dello Spirito”: lo Spirito Santo che accompagna, come gli Apostoli, che all'inizio non sapevano parlare altre lingue, non sapevano niente, eppure hanno predicato in tutto il mondo. Perciò, questo ci incoraggia: non dobbiamo parlare noi, come uomini, ma è Dio che parla attraverso l’uomo per annunciare Gesù Cristo.

D. – Lei ha fatto un richiamo alla Chiesa universale, cioè non dovrebbe interessarsi all’Africa solo la Chiesa africana ma l’intera Chiesa. E’ un richiamo alla cattolicità della Chiesa?

R. – Esatto. Mi sono domandato quanti abbiano letto “Ecclesia in Africa”. Prima di tutto, in Africa e poi, figuriamoci!, fuori dall’Africa …

D. – Come vive la Chiesa cattolica in Egitto?

R. – La Chiesa cattolica in Egitto è una minoranza, una minoranza della minoranza. La popolazione egiziana è di circa 85 milioni: circa 10-12 milioni sono cristiani copti ortodossi. Di questi cristiani, forse 200-250 mila sono cattolici: siamo veramente una minoranza della minoranza; divisi in sette riti – sempre cattolici; però abbiamo le scuole – 166 scuole cattoliche, alcune scuole hanno fino a 3 mila alunni, una cosa grande, e tutti sanno e rispettano molto le nostre scuole; abbiamo ospedali, dispensari, ambulatori … Questo è il lavoro della Chiesa cattolica. Ovviamente, la Chiesa cattolica è molto rispettata perché rispetta gli altri e cerca di dialogare con gli altri e vive in comunione: sette riti, ma viviamo in un’assemblea sola, prendiamo insieme decisioni che ci riguardano tutti. I cattolici, purtroppo, 30-40 anni fa hanno abbandonato l’Egitto e sono emigrati principalmente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia: questo ha avuto grande peso, perché era anche l’intellighenzia, e ne risentiamo ancora. Molti anche oggi pensano di poter trovare una vita migliore fuori: io consiglierei di rimanere in Egitto, anche per dare un contributo al Paese. Anche noi siamo co-responsabili della vita dell’Egitto, non solo gli “altri”, i musulmani o gli ortodossi: anche noi siamo cittadini dell’Egitto a pieno titolo!

Giustizia, pace e riconciliazione per la regione dei grandi laghi. Questo il tema al centro del quinto incontro dell’Osservatorio sul Sinodo africano, sul quale si sono confrontati ieri a Roma i Padri sinodali e i rappresentanti di Uganda, Sudan e Congo. Un’occasione per riflettere anche sulla dura realtà dei bambini soldato, raccontata attraverso una serie di testimonianze nel libro “Uccidi o sarai ucciso”, presentato durante il dibattito. Per noi c’era Linda Giannattasio.

È la terra dai mille volti e dai tanti conflitti senza memoria l’Africa raccontata dall’Osservatorio sul Sinodo africano, che vuole riaccendere i riflettori sui problemi e le speranze di questo continente anche al di là delle aule del Sinodo in corso in Vaticano. Molte le guerre dimenticate, dal Congo alla Somalia, dal Ciad al Sahara occidentale, dal nord Uganda al Darfur. Paesi protagonisti di realtà complesse esacerbate da gruppi di ribelli e da continui colpi di Stato, tutti vittime della stessa violenza. Qual è allora la strada da seguire? Padre Fernando Zolli, missionario comboniano e creatore dell’Osservatorio:

“Ci vuole una rete locale e una rete globale di solidarietà e di impegno: prima di tutto, delle Chiese locali, ma anche poi una rete interconfessionale, dove i cristiani e i musulmani, i centri delle religioni tradizionali, si mettono insieme per lavorare per la pace e così creare da noi questi ponti tra l’Occidente e l’Africa”.

Ma la strada per la riconciliazione si realizza anche attraverso la memoria di ciò che è stato, come spiega padre Joseph Mumbere, della Repubblica Democratica del Congo:

“Secondo le soluzioni che io sento è come se si debba cancellare tutto e ricominciare da capo, guardare avanti come se niente fosse successo, senza ascoltare le vittime, senza avere rispetto per tutte queste persone. E oggi si continua: i villaggi vengono bruciati, le donne vengono stuprate ogni giorno. Allora, prima sediamoci e guardiamo la realtà di queste persone. Questa è la cosa più importante: come dare voce, come fare memoria e da quella memoria ripartire.”

Ancora un dramma che affligge il continente, quello dei bambini soldato. Tra il 2002 e il 2003 oltre 8.400 ragazzini fatti prigionieri dai ribelli. Una realtà ancora troppo presente, come racconta mons. Hilboro Kussala, vescovo di Tombura- Yambio, in Sudan:

“Nella mia diocesi ogni giorno ci sono ribelli che prendono i bambini nelle foreste e ne fanno soldati. Io non ho militari, soldati, ma chiedo alla comunità di venire in nostro aiuto. Noi, come diocesi, abbiamo recuperato alcuni bambini. Abbiamo un centro in cui facciamo formazione per aiutarli a studiare, a rispettare gli altri, perché non hanno rispetto per nessuno. E’ facile uccidere per loro e psicologicamente si sentono distrutti. Quindi, bisogna aiutarli a cambiare, a rinnovare la loro vita, perché si sentano uomini, si sentano persone”.

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S_Daniele
00mercoledì 21 ottobre 2009 19:26
Il continente vive con apparente distacco il Sinodo

L'Africa attende la voce dei suoi anziani


di Giuseppe Caramazza

Quando Giovanni Paolo II annunciò al mondo che ci sarebbe stata un'assemblea del Sinodo dei vescovi dedicata all'Africa, la Chiesa africana ne gioì. Quasi tutte le diocesi si impegnarono seriamente nella preparazione al Sinodo africano, come venne subito ribattezzato. Il Sinodo venne seguito con attenzione, ma fu soprattutto la visita al continente - Camerun, Sudafrica e Kenya - che il Papa volle fare nel 1995 per dare alle comunità africane il documento finale (Ecclesia in Africa) che mise in moto un vero e proprio cammino di crescita delle comunità locali. Le proposte del primo Sinodo dedicato all'Africa vennero studiate. Molti si chiesero cosa volesse veramente dire costruire la Chiesa come una famiglia. Altri si impegnarono a una migliore inculturazione del Vangelo nella propria realtà. Alcuni segnali forti giunsero dalle Conferenze episcopali e da operatori pastorali. La fondazione della Università cattolica dell'Africa Orientale (Cuea) e di altri simili istituti ne è una prova. Il lavoro dei vescovi, ma a questo si deve aggiungere la riflessione di migliaia di comunità locali, ha ispirato la creazione di molti centri di studio e pratica del "ministero sociale".

L'annuncio di un secondo sinodo dedicato all'Africa prese tutti di sorpresa. Non pochi, sia tra i fedeli che tra la leadership della Chiesa, si chiesero se non era il caso di attendere qualche anno. Un cammino c'era senz'altro stato, ma c'era ancora molto da fare prima di mettere a frutto il Sinodo del 1994. Inoltre, in poco più di un decennio, l'Africa a sud del Sahara ha vissuto drammi enormi che hanno messo il freno a molte iniziative. Il genocidio del Rwanda del 1994, le varie guerre susseguitesi nella regione dei Grandi Laghi, la crisi del Darfur e del Sud Sudan, il tracollo dello Zimbabwe e della Somalia, sono tutte situazioni che hanno pesato enormemente anche sui Paesi limitrofi. Le diocesi hanno comunque partecipato alla riflessione chiesta da Roma e sostenuto la preparazione dell'Instrumentum laboris.

In questi giorni i vescovi africani, con altri rappresentanti delle comunità cristiane del continente, si incontrano a Roma. Come vive questo evento la comunità cristiana del continente? Un veloce controllo dei quotidiani del grande continente mostrerà una scarsa attenzione da parte dei media. Tra le grandi testate nazionali, il "Nation" di Nairobi ha parlato dell'apertura del Sinodo riportando un articolo preparato dalla Bbc. Il "Mail and Guardian" di Johannesburg ha dato la notizia, ma senza analisi approfondite. Così è stato per quasi tutte le testate. I media cattolici sono andati un po' oltre. I siti delle Conferenze episcopali del Kenya e del Sudafrica riportano gli interventi. Le radio cattoliche di vari Paesi danno notizie. In particolare, è da sottolineare la sforzo di Radio Veritas di Edenvale, una cittadina satellite di Johannesburg, in Sudafrica. Un programma quotidiano informa gli ascoltatori di ciò che è stato detto al Sinodo e, quando possibile, il cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, commenta brevemente gli eventi del giorno.

Pur sottolineando ciò che di positivo avviene, non si può fare a meno di notare che il Sinodo è vissuto un p0' in sordina. Se il mondo dell'informazione di massa non si accorge del Sinodo è anche perché la comunità cristiana sembra distaccata. In realtà occorre fare attenzione al modo con cui molte culture africane si avvicinano agli eventi importanti. Una giornalista sudafricana a cui ho chiesto un commento, mi ha ricordato che "a Roma i nostri anziani stanno parlando. Quando si rivolgeranno a noi avremo il tempo di dire la nostra, di celebrare e vivere questo secondo Sinodo".

Forse questa è la giusta chiave di lettura. Non manca interesse verso l'incontro in Vaticano. La Chiesa locale attende con rispetto di sentire che cosa diranno i vescovi. Dopo ci sarà tempo per celebrare, e soprattutto per lavorare e pianificare la rotta della Chiesa africana dei prossimi decenni.


(©L'Osservatore Romano - 22 ottobre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 21 ottobre 2009 21:38

L'idea di giustizia nel pensiero africano e l'esperienza dei conflitti recenti

Seminario su "Riconciliazione, Giustizia e Pace in Africa" dell'Istituto Toniolo e del Fiac

di Chiara Santomiero

ROMA, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

“Possiamo seppellire un cadavere, ma non una palabre, cioè una disputa”. Martin Nkafu Nkemnkia, docente di cultura, religione, arte e pensiero africano, ha portato la saggezza di un proverbio del Ghana all’interno della riflessione su “Riconciliazione, giustizia e pace in Africa”, tema del seminario di studio svoltosi lunedì scorso a Roma.


L'evento si è tenuto in occasione della II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, per iniziativa dell’Istituto internazionale della pace “Giuseppe Toniolo” – organismo dell’Azione cattolica italiana – e del Forum internazionale di Azione cattolica (Fiac).


Infatti le dispute e i problemi - che non mancano in nessuna famiglia o comunità - non vanno seppelliti, ma affrontati all’interno del contesto sociale.


“Ogni atto e comportamento deviante dalla legge naturale-tradizionale – ha spiegato Nkafu Nkemnkia a proposito di “Volontà di pace e perdono nel pensiero africano” – contribuisce alla distruzione dell’unità della comunità, dell’armonia nelle relazioni interpersonali e coloro che se ne sono resi colpevoli necessitano di un’operazione di reintegro nella società cioè di un procedimento di riconciliazione”.

Per arrivare alla riconciliazione occorre che l’individuo confessi le proprie colpe alla comunità la quale concede il perdono attraverso un rito – presieduto dagli anziani, resi saggi dalla vicinanza agli antenati - che si conclude con un pasto in un’atmosfera di festa. A volte viene chiesto un risarcimento per il danno arrecato, che varia a seconda delle situazioni e dei paesi. Quando tutto ciò è compiuto, la persona interessata e la comunità devono necessariamente concedere il perdono a coloro che li hanno offesi.


“Senza la comunità – ha sottolineato Nkafu Nkemnkia – l’individuo è privo d’identità, sia di quella spirituale che religiosa e culturale”.


La giustizia
gacaca in Rwanda


I tribunali gacaca sono espressione di questa giustizia partecipativa e riconciliatrice.

Gacaca – ha spiegato mons. Servilien Nzakamwita, vescovo di Byumba e presidente della Commissione episcopale per l’apostolato dei laici del Rwanda – significa ‘prato’. Gli adulti di una comunità vi si siedono per ascoltare le persone in conflitto e stabilire quale sia la verità, attribuendo responsabilità e ragioni”. Il colpevole deve riparare il danno e la parte lesa far valere i propri diritti ma entrambi sono tenuti ad accettare la riconciliazione.


Ad evitare l’errore di pensare che si tratti di un procedimento giudiziario naive, occorre ricordare che il conflitto etnico scoppiato in Rwanda nel 1994 ha provocato un milione di morti, circa 3 milioni di rifugiati oltre un numero non precisato di orfani e mutilati. Alla fine del conflitto c’erano 120 mila persone detenute in carcere per crimini legati al genocidio.

“Nel 1996 – ha raccontato Nzakamwita – fu emanata una legge che istituiva sezioni speciali presso i tribunali penali per l’accertamento e la punizione di questi crimini. Dopo 12 anni, erano state evase 6 mila pratiche su 120 mila. Ci si è accorti che ci sarebbe voluto più di un secolo per giudicare tutti”.


La soluzione fu proprio ricorrere alla giustizia gacaca. “Ogni collina – ha aggiunto il vescovo di Byumba – aveva il suo tribunale con giudici di quella collina per accertare crimini compiuti in quella collina”.

Il compito dei tribunali era per prima cosa riunire le informazioni su quanto avvenuto, ascoltando le vittime. Gli accusati venivano condotti sulle colline e giudicati; una volta accertatane l’innocenza venivano liberati, altrimenti rimandati in carcere con il capo d’imputazione stabilito dalla legge. Si cercava anche di facilitare il processo di ammissione della colpa (per la quale sono previsti benefici di pena) e della richiesta di perdono alle vittime o alle loro famiglie.

“L’obiettivo – ha affermato Nzakamwita – era ridurre la durata dei processi, sradicando la cultura dell’impunità per ricostruire il Paese e dare fiducia ai ruandesi sulla loro capacità di risolvere i propri problemi”.

“La situazione oggi del Rwanda – ha concluso Nzakamwita – dimostra che la riconciliazione è possibile e che ognuno si adopera per questo obiettivo”.


Le commissioni per la verità e la riconciliazione in Sierra Leone


“E’ difficile dire cosa sia scattato in una popolazione di indole tanto gentile così da portarla a compiere violenze inaudite”. Mons. Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni e presidente della Conferenza episcopale di Gambia e Sierra Leone, non ha risposte semplici a proposito delle violenze scoppiate in Sierra Leone dieci anni fa.

“Non si è trattato sicuramente né di motivi religiosi né di motivi etnici perché nelle famiglie sono comuni le appartenenze a tribù e religioni diverse; piuttosto lo sfociare violento di una situazione di malcontento diffuso dovuto alla situazione sociale precaria in uno Stato in cui non era più assicurato il funzionamento di nessuna struttura pubblica”.

In quella situazione “il consiglio interreligioso composto da rappresentanti dei musulmani – che sono la maggior parte della popolazione – e dei cristiani, cattolici e protestanti, è diventata una forza di mediazione con i ribelli, perché godeva di grande rispetto da parte della popolazione che la riteneva capace di ascolto e di dialogo”.


“La costituzione di commissioni per la verità e la riconciliazione – ha spiegato Biguzzi – facevano parte degli accordi di pace firmati dal governo della Sierra Leone e il Fronte unito rivoluzionario nel luglio del 1999 in seguito alla mediazione del consiglio interreligioso e dell’Onu”.

L’obiettivo era “ascoltare le vittime, appurando la verità dei fatti avvenuti e cercando le cause delle violenze per evitare, per quanto possibile, che si ripetano in futuro”. Le commissioni, inoltre, “formulano raccomandazioni obbligatorie per il governo per riparare i danni causati alle vittime. Oltre ai saccheggi e all’incendio delle case, agli omicidi, molti hanno subito il taglio di una mano o di entrambe e hanno bisogno di risorse per vivere”.


“La pace ha il suo prezzo – ha affermato Biguzzi – e le vittime sono quelle che pagano il prezzo più alto, ma se hanno la forza di perdonare questo diventa molto liberante per loro stesse e dà la possibilità di nuova vita”.


L'esperienza del tribunale penale internazionale


Su un altro modello di giustizia – quella retributiva – si basa un’esperienza relativamente nuova e in evoluzione (i cui precedenti sono i tribunali di Norimberga e Tokio, alla fine della seconda guerra mondiale): il Tribunale penale internazionale che si basa, ha affermato Paolo Benvenuti, docente di diritto internazionale e preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Roma Tre, “sull’idea di una giustizia per crimini contro l’umanità che deve funzionare a livello ampio e sull’evoluzione della coscienza collettiva rispetto all’impunità”.

Nel 1994 è stato istituito ad Arusha, in Tanzania, un tribunale penale internazionale per i crimini legati al genocidio in Rwanda. Sulla scorta anche di questa esperienza si è arrivati, nel 1998, all’approvazione dello statuto di una corte penale internazionale permanente “fondato su un trattato internazionale aperto a una partecipazione tendenzialmente universale”.

Lo statuto è entrato in vigore nel 2002 tra i primi 60 stati che lo hanno ratificato; ad oggi sono 110 gli stati che ne fanno parte e tra questi 30 sono africani. Dei 18 giudici che lo compongono, 4 sono africani e provengono da Mali, Uganda, Ghana e Botswana.

“Gli africani – ha affermato Benvenuti – con la loro adesione e partecipazione, dimostrano fiducia verso questa istituzione per fare giustizia verso le vittime, nonostante i limiti che ancora ci sono”.

Data la sua natura di trattato internazionale, “funziona solo con la cooperazione degli stati che devono modificare le leggi nazionali e anche questo contribuisce a produrre mutamenti nella coscienza collettiva di un Paese. Il Rwanda, per adeguarsi, ha abolito la pena di morte”.

L'impegno della Chiesa in Burundi

“Il genocidio non c'è stato solo in Rwanda e non si è trattato di una fatalità. La Chiesa è famiglia di Dio chiamata a perdonare ma anche a denunciare, perché non ci può essere pace senza giustizia”. Mons. Simon Ntamiwana, arcivescovo di Gitega e presidente dell'Aceac (associazione conferenze episcopali dell'Africa centrale) ha tracciato la mappa delle situazioni vecchie e nuove che continuano a causare le sofferenze del popolo del Burundi e di tutta la Regione dei Grandi laghi.

“I nostri popoli continuano a subire conflitti, miseria, epidemia e l'annientamento dei diritti dell'uomo. Sul nostro territorio si abbattono gli effetti perversi della globalizzazione con il traffico di armi, gli abusi di potere della classe politica che sfruttano le divisioni etniche per arricchirsi, lo sfruttamento delle risorse naturali”.

“Cercare la riconciliazione – ha affermato Ntamiwana che ha rimproverato ai media di non mettersi spesso al servizio della verità – significa andare alla radice di questi mali con la fiducia che il dialogo è sempre possibile e la pace è un impegno di tutti”.

Nella ricostruzione sociale ed economica del Paese, secondo mons. Evariste Ngoyagoye, arcivescovo di Bujumbura e presidente della Commissione episcopale per l'apostolato dei laici del Burundi, “gioca un grande ruolo la Chiesa, non solo cattolica ma anche protestante. Attualmente sono presenti in Africa oltre 200 confessioni religiose, di cui molte nate negli ultimi anni”.

Anche in Burundi è prevista la costituzione di commissioni per la pace e la riconciliazione “perché abbiamo un passato molto pesante con il quale fare i conti. Tutte le diocesi sono impegnate nei sinodi per partecipare tutti insieme alla dinamica della riconciliazione”.

Le priorità d'impegno riguardano le famiglie e i giovani: “molti di essi sono stati strumentalizzati e coinvolti nelle violenze. Oggi tornano alle loro case e non trovano più nulla ad aspettarli”. Per aiutarli a tornare alla vita normale “un grande aiuto è venuto dai Movimenti di Azione cattolica che offrono a tutte le fasce d'età momenti di formazione ed occasioni di incontro nello sport o nelle marce per la pace che permettono, insieme anche ai giovani di Congo e Rwanda, di riscoprire la comune umanità e il comune destino di essere il futuro dell'Africa”.

La scuola di pace dell'Azione cattolica

“L'impegno del Forum internazionale di Azione cattolica nel continente africano – ha affermato Emilio Inzaurraga, coordinatore del Segretariato del Fiac – è continuare a lavorare alla promozione di un laicato maturo capace di assumersi responsabilità significative nella Chiesa e nella società”. Si inserisce in questa attenzione la Scuola di pace realizzata in colaborazione con l'Istituto di diritto internazionale della pace “Giuseppe Toniolo”.

“Si tratta di un progetto biennale – ha spiegato Francesco Campagna, direttore dell'Istituto – che prevede moduli di formazione ai diritti umani e alla pace per formatori di giovani ed adolescenti, con sessioni in Burundi, in Italia, in Rwanda, nella Repubblica democratica del Congo e ancora in Italia, a partire dall'agosto 2010”.

“Una formazione alla luce della dottrina sociale della Chiesa – ha aggiunto don Salvatore Niciteretse, segretario della Commissione episcopale per l'apostolato dei laici del Burundi e coordinatore del Fiac in Africa – che metta al centro la dignità della persona umana e i suoi diritti inalienabili; una presa di coscienza dell'inutilità politica della guerra e dei costi umani, morali ed economici della violenza armata”.

“Poiché riconosciamo – ha concluso Campagna – il forte bisogno di riconciliazione in Italia e in Europa, crediamo che l'esperienza delle chiese africane possa essere feconda anche per le nostre comunità occidentali”.

S_Daniele
00giovedì 22 ottobre 2009 15:36
Sinodo. Un vescovo del Camerun: la voce della Chiesa contro la corruzione

Proseguono, anche oggi a porte chiuse, i lavori del
Sinodo dei vescovi per l’Africa. Domani si riunirà la 18.ma congregazione generale per la presentazione e la votazione del Messaggio finale. In molti lo hanno già definito il “Sinodo della Pentecoste” considerata la pluralità degli interventi e dei temi trattati. Tra questi ultimi, particolare attenzione è stata dedicata all’ambiente: deforestazione e desertificazione minacciano infatti vaste zone del Continente. Tra queste c’è anche il Camerun, Paese in cui è in atto un graduale, ma difficile processo di democratizzazione. Paolo Ondarza ha intervistato mons. Cornelius Fontem Esua, arcivescovo della diocesi camerunese di Bamenda:

R. – La cosa interessante è che siamo arrivati come una Torre di Babele e torniamo a casa uniti. Come affrontare i problemi? Il Sinodo per me è un momento di grazia che ci fa capire innanzitutto che i problemi che abbiamo in un Paese sono gli stessi che si trovano in un altro e dunque bisogna lavorare insieme. Tutte le esigenze che abbiamo discusso sono anche le esigenze del Camerun. In Camerun abbiamo la fortuna di non avere conflitti etnici: è una benedizione! Però, nel Camerun la società civile non è contenta; il processo democratico è un po’ lento e non dà molto spazio alla libertà di espressione e alla possibilità di scegliere il proprio partito: la gente è praticamente obbligata a scegliere il partito del governo. Penso che in questo campo ci sia bisogno di riconciliazione. C’è poi in Camerun il problema della giustizia, perché i giovani soprattutto sono vittime della corruzione: l’80 per cento di loro non ha lavoro perché il lavoro si trova soltanto in base alle conoscenze.

D. – La voce della Chiesa è una voce scomoda?

R. – Qualche volta sì, noi non tacciamo. Abbiamo scritto una Lettera pastorale sulla corruzione e sulla base di questa lettera abbiamo avviato ora un programma di formazione, soprattutto nelle scuole. Bisogna rendere consapevoli i giovani del fatto che i problemi della corruzione possono essere risolti soltanto con una formazione che consenta loro di poter poi cambiare la società di domani.

D. – Qui al Sinodo si è parlato anche di ambiente: deforestazione e desertificazione sono realtà che purtroppo interessano anche il Camerun …

R. – Questo problema esiste nel Sud del Camerun, dove l’esportazione del legno dalle nostre foreste non avviene in maniera responsabile. Si esporta in Europa, soprattutto in Francia: si abbattono gli alberi e il Paese diventa deserto.

D. - Lo definisce un modo di fare “irresponsabile” perché a poco a poco stanno scomparendo tutti gli alberi?

R. – Sì, alberi che hanno impiegato almeno 100 anni per essere quello che vediamo oggi: e non si pensa al domani.

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S_Daniele
00giovedì 22 ottobre 2009 19:14
Intervista al cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, presidente delegato dell'assemblea sinodale

In ombra nei media la vera immagine dell'Africa


di Nicola Gori

Africa e Aids. Africa e guerre. Africa e genocidi. Africa e fame. Africa e corruzione dei governanti. È solo questa la realtà del continente? È solo questa l'immagine che ne hanno data i padri sinodali? Se ne è lamentato pubblicamente il cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, parlando con i giornalisti nel corso della conferenza stampa settimanale, il 14 ottobre scorso. "L'Africa - ha detto - è molto di più. Custodisce valori e capacità tali da poter offrire, anche al resto del mondo, il contributo di questa sua ricchezza spirituale". Solo che per i mass media, è la sua denuncia, esiste solo il male dell'Africa. Le cose buone non fanno notizia. 

Africa tradita dai media dunque?

Il discorso è molto più complesso di quanto appare a prima vista. Innanzitutto bisogna fare una precisazione:  io non ho assolutamente generalizzato. Ho parlato solo di alcuni mezzi di comunicazione sociale che riportano soltanto aspetti negativi. Anche quando parlano della Chiesa ne parlano con toni negativi. Mi riferisco soprattutto a quando si parla dell'Hiv e dell'Aids. Penso in particolare a quei media che attribuiscono alle indicazioni della Chiesa contrarie all'uso dei preservativi il mancato successo della lotta contro l'Aids. Non riconoscono l'impegno della Chiesa nell'opera di prevenzione e nell'assistenza a chi soffre. La Chiesa vuole intervenire nella lotta contro l'Aids e lo sta facendo portando avanti direttamente delle attività che possono ricondursi a quattro. La prima è promuovere la conoscenza dell'Hiv, fornendo informazioni accurate sul modo in cui si contrae il virus e su come evitarlo. La seconda è l'assistenza vera e propria ai malati attraverso cure domiciliari e la formazione di persone che possano aiutare all'interno della famiglia coloro che hanno contratto il virus dell'Hiv. La terza è l'assistenza attraverso programmi specifici. La quarta è l'assistenza agli orfani e ai bambini.
Oltre a queste quattro attività, ve ne è una quinta, ovvero quella di prevenzione. Ci stiamo concentrando nell'esortare i giovani a rispettare se stessi e gli altri, ad astenersi dal sesso se non sono sposati e se sono sposati a essere fedeli al loro coniuge.

Però nel corso dei dibattiti al Sinodo i padri hanno dato un'immagine negativa dell'Africa. I giornali si sono limitati a registrare quanto detto.

Il fatto è che stiamo cercando di descrivere la realtà africana e, purtroppo, va riconosciuto che in molte parti del continente ci sono problemi gravi. Basti dare uno sguardo:  il Congo orientale è un'area disastrata così come il Darfur e il Sudan meridionale, lo stesso si può dire delle zone intorno all'Uganda settentrionale, del Sudan meridionale, della Repubblica Centrafricana in cui è attivo il Law resistence army. È un disastro per chi ci vive. Dobbiamo sensibilizzare la comunità internazionale riguardo alle aree in cui vi sono delle crisi in atto e vi è bisogno di intervento. E questo è innegabile. Esistono, però, anche delle realtà positive:  in Rwanda, il cammino verso la completa riconciliazione sociale procede spedito. Una delle suore uditrici ha raccontato di aver incontrato la persona che aveva ucciso i suoi genitori e il resto della sua famiglia e di essersi riconciliata con lui. Si sono così liberati del peso di quell'esperienza. In molti Paesi procede anche il cammino della democrazia. Adesso è possibile svolgere le elezioni libere, dove un tempo vi erano dittature che lo impedivano.
Ecco quali sono le immagini positive di quanto sta accadendo in Africa. Ci sarebbe poi da parlare della creazione di commissioni di riconciliazione e verità in molte regioni, per risolvere il problema dei conflitti e delle violenze tribali. Il Burundi sta per istituire una commissione di riconciliazione e verità. Lo Stato della Sierra Leone ha già avviato il processo e non è il solo. Molte Conferenze episcopali che nel 1994 non possedevano commissioni di giustizia e pace per far riconoscere i diritti ai cittadini, ultimamente le hanno istituite. Sarebbe bene che i giornalisti ci aiutassero a far conoscere cosa stanno facendo i vescovi veramente. Se ne ricaverebbe un'immagine migliore dell'Africa. Anche nel mio Paese, il Sud Africa, le cose ora vanno molto meglio di qualche tempo fa. Ma a volte non interessa più il nostro cammino che ci ha portato alla democrazia.

Considera esportabile in altri Paesi africani il processo di democratizzazione del Sud Africa?

Dipende dalle situazioni. Nel nostro caso si è verificata una convergenza di circostanze. L'unica cosa certa è che Dio aveva un disegno speciale per noi e crediamo che l'abbia attuato. Per almeno 13 o 14 anni tutta l'Africa meridionale ha pregato per un cambiamento pacifico nel nostro Paese. Semmai c'è da chiedersi perché è accaduto solo da noi? Forse abbiamo potuto contare sulla persona giusta al momento giusto. Mi riferisco a Nelson Mandela. Persino dal carcere in cui era stato relegato è riuscito a stimolare il Governo al cambiamento. Fortunatamente i governanti lo hanno ascoltato. Non a caso, mentre era ancora in prigione, aveva già avviato negoziati, proseguiti quando poi è stato liberato, insieme con gli altri leader del movimento. Le migliori menti del Paese si sono riunite nella Convention for a democratic South Africa (Codessa). Tra i protagonisti c'erano Nelson Mandela e Frederik Willem de Klerk. Entrambi avevano alle spalle validi collaboratori che li aiutarono nel processo di negoziazione. Ma chi ne parla?

Cosa vorrebbe dire a chi gestisce i mass media?

Dovremmo chiedere ai mezzi di comunicazione sociale di annunciare buone notizie. Ecco un esempio:  l'altro giorno qualcuno mi ha chiesto:  "Quali sono le notizie positive del Sinodo?". Ho risposto che più di 200 vescovi sono riuniti per discutere del continente e per esaminare l'attività della Chiesa. La buona notizia era la crescita e l'approfondimento della fede. Il giornalista mi ha fissato e ha chiesto:  "Sì, d'accordo, ma qual è la buona notizia sull'Africa che arriva da questo Sinodo?".
Penso, quindi, che abbiamo bisogno di giornalisti che ascoltino, osservino e, a volte, leggano anche fra le righe, quello che viene detto veramente. A volte, quando diciamo che stanno accadendo cose brutte, pensiamo che in altri luoghi vi sono aspetti positivi.

Pensa sia stato sufficiente lo spazio che hanno dato al Sinodo i mass media in generale e quelli africani in particolare?

Assolutamente no. È stato molto poco. In Sud Africa solo un giornale, peraltro quello cattolico, si è occupato del Sinodo. In altre parti dell'Africa se ne parla solo se ci sono stazioni radiofoniche cattoliche. Prendiamo l'esempio del Sud Africa:  abbiamo un'emittente radiofonica, Radio Veritas, gestita da un padre domenicano:  è l'unica che sta seguendo il Sinodo con molta attenzione. Per quanto riguarda il resto della stampa non credo stia facendo molto. Le cose spirituali, le cose religiose non vengono riportate, a meno che non si tratti di questioni controverse. Allora si che le pubblicano!


(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2009)
S_Daniele
00giovedì 22 ottobre 2009 19:15
Una macchina organizzativa che richiede impegno e dedizione

Il lavoro silenzioso della Segreteria generale del Sinodo


Ha previsto tutto - o meglio ha previsto tutto quanto prevedibile - la Segreteria generale del Sinodo dei vescovi per rendere il più agevole possibile il soggiorno dei Padri sinodali a Roma e nella Città del Vaticano, e per semplificare il lavoro dell'assemblea generale.
Una mole di lavoro imponente, che si è sviluppata in tanti e diversificati settori, già molto tempo prima che iniziasse la prima congregazione generale in aula. "L'Osservatore Romano" ha seguito passo passo l'iter preparatorio, pubblicando notizie e interviste periodiche con il segretario generale.

Meno conosciuto è invece il lavoro che è seguito alla fissazione della data di svolgimento. È il momento in cui si avvia il motore che assicura il buon funzionamento di ogni pur piccolo ingranaggio.
È infatti la Segreteria generale - guidata dall'arcivescovo Nikola Eterovic, coadiuvato dal sottosegretario monsignor Paolo Frezza, e con la fattiva collaborazione dei monsignori John Anthony Abruzzese ed Etienne Brocard, minutanti, e di monsignor Daniel Emilio Estivill, addetto di segreteria, dei reverendi Zvonimir Sersic e Ivan Ambrogio Samus e della signora Paola Toppano Volterra - che si incarica innanzitutto dei viaggi dei Padri sinodali verso Roma, del loro alloggio,  dei  mezzi di trasporto per raggiungere quotidianamente l'aula del Sinodo, del loro rientro. Per i presuli che hanno meno disponibilità è previsto anche il pagamento diretto di tutte le spese relative.

C'è poi da seguire la Floreria per la sistemazione dell'aula, e di tutti gli altri luoghi limitrofi, nei quali si svolgono le diverse attività sinodali; con i tecnici della Radio Vaticana si deve verificare l'impianto audio; con i servizi tecnici del Governatorato è necessario predisporre il sistema elettronico di rilevazione delle presenze e di votazione, nonché il collegamento con la sezione della traduzione simultanea e la diffusione delle immagini sui monitor della sala. Con un piccolo stuolo di assistenti - trentadue giovani sacerdoti, in questa occasione prevalentemente africani - si provvede all'assistenza dei Padri in aula:  distribuzione delle relazioni, dei documenti e di quant'altro necessario in ogni momento dell'assemblea, pronta disponibilità per le diverse esigenze dei sinodali.

Le stanze riservate alla segreteria brulicano, in ogni momento della giornata, di persone indaffarate. Per avere un'idea di quello che avviene in questi locali basti pensare alla produzione quotidiana di materiale informatico, ma soprattutto cartaceo, realizzato attraverso un certosino lavoro di controllo e distribuzione di quanto viene dai Padri e ai Padri torna sotto forma di documento. Tanto per fare un esempio, per fornire all'assemblea una bozza in quattro lingue del Nuntius e poterne così discutere in aula, si è lavorato sino alle due del mattino dello stesso giorno in cui è stato presentato e per dare alle stampe l'elenco provvisorio delle Propositiones si è lavorato addirittura sino alle quattro del mattino. Tutto il materiale elaborato viene poi trasmesso al Centro stampa per la diffusione.

Discorso a parte merita l'organizzazione a latere, cioè la messa a punto di una serie di servizi utili per i Padri sinodali. Intanto al primo piano dell'aula è stata allestita una cappella dove è custodito il Santissimo Sacramento. Sullo stesso piano è disposto un servizio di primo soccorso, dove è sempre possibile trovare un medico e un infermiere. I medici non sono però autorizzati a prescrivere medicinali. Possono farlo solo in casi di urgenza e di grave necessità. Così ai Padri che seguono terapie farmacologiche durature, la segreteria consiglia di provvedere a farne scorta prima dell'inizio dei lavori.

L'atrio del complesso - che comprende, oltre all'aula sinodale, quella per le udienze generali - è trasformato in una sorta di centro servizi. Ci sono sportelli postali, bancari, turistici, un casellario personale, una libreria, una postazione internet, un ufficio propaganda della Radio Vaticana, punti vendita di fotografie, tra i quali spicca quello del servizio fotografico de "L'Osservatore Romano", affiancato da un tavolo dove ritirare copie gratuite del giornale, un servizio ristoro e persino una mostra di opere di artisti africani.

E, a giudicare dalle frequentazioni, si tratta di servizi molto graditi ai Padri sinodali. Lo sportello postale è naturalmente un servizio delle Poste Vaticane. Si possono svolgere tutte le normali funzioni generalmente eseguibili in un ufficio simile, "tranne - spiega l'impiegato di turno - la movimentazione di denaro". L'operazione più richiesta è la spedizione di raccomandate "perché - spiega ancora l'impiegato - nei Paesi africani se si vuole avere sempre la possibilità di rintracciare la corrispondenza, è necessario servirsi del sistema di posta raccomandata".
Anche nei due sportelli aperti dall'Istituto per le opere di religione, è possibile espletare qualsiasi operazione bancaria:  dal cambio, al deposito, al prelevamento, al bonifico e quant'altro. E, per i Padri sinodali, non è neppure necessario aver aperto un conto.

Stesso discorso per la succursale della Peregrinatio ad Petri sedem dove i sinodali possono cambiare prenotazioni, farne di nuove, stabilire itinerari e chiedere  servizi  di trasporto per la città.

Al punto vendita della Libreria Editrice Vaticana (Lev) sono stati venduti sino a oggi oltre quattrocento titoli per un totale di 1.500 copie. Il volume più venduto - a parte quattrocento copie della Bibbia acquistate, a prezzo di favore, da un delegato fraterno ortodosso - è un libro sul secondo sinodo africano di fronte alle sfide socio-economiche del continente, di Joseph Ndi-Okalla. Molte anche le copie vendute dell'Annuario pontificio. I titoli di altre edizioni sono venduti con il 20 per cento di sconto, quelli della Lev con il 40 per cento.

Numerosi anche i doni offerti in questi giorni ai Padri sinodali. Ultimo, in ordine di tempo, quello presentato dall'arcivescovo Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Si tratta di un kit di pronto soccorso, contenente anche strumentazione medica di prima necessità, compreso un misuratore digitale per la pressione. "Un piccolo segno di solidarietà e di comunione - ha detto l'arcivescovo presentando i kit al Papa perché li benedicesse prima di donarli ai 275 Padri sinodali - con le popolazioni del continente africano, anche quelle delle aree più remote".
Alla presentazione del kit è intervenuto il signor Larry Yu-Yuan Wang, ambasciatore della Repubblica di Cina (Taiwan) presso la Santa Sede, promotrice dell'iniziativa insieme con il Pontificio Consiglio. (mario ponzi)

(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2009)
S_Daniele
00venerdì 23 ottobre 2009 11:24
Vescovi africani di fronte all'islam: toni differenti, conclusioni comuni

Chiedono dialogo, libertà religiosa e reciprocità di culto



di Jesús Colina

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 22 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
Il Sinodo per l'Africa ha permesso di constatare che anche se i toni dei Vescovi nel parlare dell'islam sono diversi e a volte divergenti, la conclusione a cui giungono tutti è una sola: l'inesorabilità del dialogo e l'affermazione della libertà religiosa.

Lo ha dichiarato monsignor Joseph Bato'ora Ballong Wen Mewuda, sacerdote portavoce dell'assemblea per la lingua francese, che ha constatato la differenza di espressioni tra i Vescovi del Nordafrica e quelli dell'Africa subsahariana.

Queste differenze sono state esposte nelle conclusioni dei gruppi di lavoro, ciascuno formato da circa venti membri, come ha spiegato padre Gérard Chabanon, M. Afr., Superiore Generale de Missionari d'Africa (Padri Bianchi), relatore del Gruppo “Francese A”.

Cristiani nel Nordafrica

I Vescovi del Nordafrica sono stati piuttosto prudenti al momento di denunciare con grande risonanza le restrizioni della libertà religiosa che si verificano nelle loro comunità.

Nel suo intervento centrato sui giovani studenti subsahariani nel Maghreb, ad esempio, monsignor Vincent Landel, Arcivescovo di Rabat (Marocco) e presidente della Conferenza Episcopale Regionale dell'Africa del Nord, ha riconosciuto che questi “ scoprono un mondo in cui l’Islam è sociale e dove praticamente non esiste libertà religiosa per un magrebino”.

Monsignor Maroun Elias Lahham, Vescovo di Tunisi, ha espresso il suo malcontento per la mancanza di spazio che l'islam ha ricevuto nell'Instrumentum laboris (Documento di lavoro) del Sinodo.

“Circa l’80% dei 350 milioni di arabi musulmani vive nei Paesi dell’Africa settentrionale – ha osservato – . Tutto ciò per dire che i rapporti islamo-cristiani in Africa del Nord sono diversi da quelli dell’Europa, dell’Africa subsahariana e anche dei Paesi arabi del Medio Oriente”.

Il presule si è chiesto in che cosa consista la specificità dell'esperienza delle Chiese nel Nordafrica, rispondendo che “si tratta di una Chiesa dell’incontro. Anche se non ha tutta la libertà auspicata, non è perseguitata”.

“Si tratta di una Chiesa che vive in Paesi al 100% musulmani e in cui la schiacciante maggioranza dei fedeli è composta da stranieri la maggior parte dei quali resta solo qualche anno”, ha proseguito.

E' infine “una Chiesa che vive in Paesi musulmani in cui sta nascendo un movimento di pensiero critico nei confronti di un Islam integralista e fanatico”.Il Vescovo di Tunisi ha concluso chiedendo “un dibattito sull’Islam in Africa che tenga conto della varietà delle esperienze africane, da Tunisi a Johannesburg”.

L'islam nell'Africa subsahariana

Monsignor Ballong Wen Mewuda ha spiegato in un incontro con i giornalisti che in generale i Vescovi dell'Africa subsahariana hanno insistito sulla necessità di intavolare un dialogo aperto con l'islam per affermare il diritto fondamentale alla libertà religiosa.

Allo stesso tempo, in queste zone geografiche dove i musulmani in genere non sono la maggioranza sono stati constatati in varie occasioni tentativi sempre più dinamici di islamizzare le popolazioni.

Il Cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, ha riconosciuto che nel continente “l'islam è in costante crescita grazie a tre strumenti: le confraternite, le scuole coraniche e le moschee”.

Il Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, Arcivescovo di Cape Coast (Ghana), ha riconosciuto in un incontro informale del 21 ottobre con alcuni giornalisti che i Vescovi vedono in questo tentativo di espansione una “minaccia”, spesso dovuta soprattutto a interessi politici.Da ciò derivano anche l'aumento e il sostegno alle correnti islamiste.

Monsignor Norbert Wendelin Mtega, Arcivescovo di Songea (Tanzania), ha dichiarato davanti all'assemblea: “Amiamo i musulmani. Vivere con loro fa parte della nostra storia e cultura. Ma il pericolo che minaccia la libertà dell'Africa, la sovranità, la democrazia e i diritti umani è in primo luogo il fattore politico islamico, ossia il progetto voluto e il processo chiaro di 'identificare l'islam con la politica e viceversa' in ciascuno dei nostri Paesi africani”. “In secondo luogo c'è il fattore monetario islamico, mediante il quale grandi somme di denaro provenienti da Paesi esteri vengono riversate nei nostri Paesi per destabilizzare la pace e sradicare il cristianesimo”, ha aggiunto.

Monsignor Arlindo Gomes Furtado, Vescovo di Santiago de Cabo Verde, ha denunciato “un grande investimento nella promozione dell’islam nell’unico paese cattolico della regione.”.

Conclusione: dialogo, reciprocità e libertà religiosa

Come ha raccolto nelle sue conclusioni il gruppo di lavoro moderato da padre Gérard Chabanon, anche se la realtà dell'islam non è la stessa in Africa, l'atteggiamento che devono promuovere i cristiani è unico: “un dialogo di vita e un dialogo sociale”.

“Si è insistito fortemente sul fatto che dobbiamo cercare sempre la libertà di coscienza e la reciprocità dei culti”, ha aggiunto il gruppo di lavoro, preannunciando senz'altro un elemento che farà parte delle “proposizioni” del Sinodo al Papa e del suo Messaggio al Popolo di Dio.


[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]


Delegazione di Padri sinodali dal Ministro degli Esteri Frattini

Si è parlato di persecuzione anticristiana, droga, armi e traffico di esseri umani



ROMA, giovedì, 22 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
Una delegazione di Padri sinodali si è recata questo giovedì mattina nella sede del Ministero degli Affari Esteri per un incontro con il titolare della Farnesina, Franco Frattini.

La delegazione era composta dal Segretario generale del Sinodo – l'Arcivescovo Nikola Eterović –, dal Sottosegretario – mons. Fortunato Frezza –, dai tre Presidenti delegati – i Cardinali Francis Arinze, Théodore-Adrien Sarr e Wilfrid Fox Napier, OFM – dal Relatore generale – il Cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson – dai Segretari speciali – l’Arcivescovo Damião António Franklin e il Vescovo Edmond Djitangar – e dal Segretario di mons. Eterović – padre Ambrogio Ivan Samus –.

Secondo quanto riferito dal giornalista della Radio Vaticana presente all'incontro, i temi affrontati sono stati: “Cooperazione allo sviluppo, persecuzione anticristiana e lotta al traffico di droga, di armi e di esseri umani”.

“Si è parlato anche di riconciliazione, giustizia e pace – ha aggiunto – e nel corso del confronto con il titolare della Farnesina sono emerse diverse convergenze, tra queste l’attuazione di politiche che mettano al centro l’essere umano evitando che gli effetti negativi della globalizzazione colpiscano soprattutto i più deboli”.

In merito sempre all’incontro, il Cardinale Francis Arinze ha affermato che “è stata una cosa molto positiva ciò che il governo italiano ha fatto, ciò che progetta di fare, anche incoraggiando gli africani ad essere protagonisti del loro presente e del loro futuro, apprezzando il valore dell’interdipendenza che quando è accettata diventa solidarietà”.

“Noi abbiamo aggiunto che ci sono aree dove il governo potrebbe fare più attenzione agli africani che sono in maggior parte studenti perché durante il loro soggiorno non siano obbligati a rinnovare i documenti ogni due anni”, ha sottolineato.

Il porporato africano ha quindi accennato alla “questione dell’immigrazione: ogni Paese ha diritto di avere le proprie leggi ma c’è tanta sofferenza, chi non muore nel deserto muore nel mar Mediterraneo”.

“Occorre poi promuovere lo sviluppo, così la tentazione di migrare sarà ridotta – ha proseguito –. Non si può togliere a nessuno il diritto di cercare una sistemazione altrove per avere una vita più degna”.

Dal canto suo il Ministro Franco Frattini ha risposto agli appelli della Chiesa africana spiegando l’impegno del governo italiano contro le persecuzioni religiose e anticipando alcune proposte in tema di immigrazione e di formazione.

Per quanto riguarda il tema della libertà religiosa, Frattini ha affermato: “Io credo che l’Unione Europea debba intanto affermare con forza la sua volontà politica di agire nei confronti di tutti i governi dove si verificano questi episodi orribili per richiamare la loro attenzione. In secondo luogo dovrebbe monitorare la situazione della libertà religiosa dei cristiani in molte parti del mondo”.

Ha poi accennato a un’agenzia europea per i richiedenti asilo e per i rifugiati, “un progetto che prevede un’agenzia per l’esame secondo procedure comuni delle domande di asilo provenienti da richiedenti non europei che arrivano in un qualsiasi Paese europeo”.

In questo modo, ha spiegato, “non ci sarà più quella diversità di criteri che oggi c’è, dove ciascun Paese ha le sue regole di giudizio, riconosce o non riconosce secondo criteri non omogenei, e coloro che saranno riconosciuti avranno il diritto di libera circolazione dell’intero spazio europeo”.

Infine, ha fatto appello ai Paesi e alle università dell'Africa affinché diano vita a “progetti per borse di studio, per corsi di formazione di giovani laureandi e laureati in modo che da queste università cattoliche cresca una classe dirigente che l’Italia ha un interesse generale a sostenere perché investire sull’Africa è investire sul futuro del mondo”.
S_Daniele
00venerdì 23 ottobre 2009 19:27

Padre Lombardi: «La speranza di un Continente: l'Africa ha da dirci qualcosa»

Clicca qui per leggere l'intervista pubblicata da "Il Riformista".
S_Daniele
00venerdì 23 ottobre 2009 19:29
Messaggio finale del Sinodo: "Africa, alzati e cammina!"

Un lungo applauso: così, stamani, il
Sinodo dei Vescovi per l’Africa ha accolto la presentazione del Messaggio finale dell’Assemblea. Alla presenza di Benedetto XVI, la 18.ma Congregazione generale ha visto la lettura del documento in quattro lingue: inglese, portoghese, francese e italiano. Il servizio di Isabella Piro:

“Africa, alzati e cammina!”. E’ forte l’esortazione lanciata dal Messaggio finale del Sinodo: non c’è tempo da perdere, dicono i Padri sinodali, l’Africa deve cambiare e non si deve abbandonare alla disperazione.

Il documento è suddiviso in sette parti, più un’introduzione ed una conclusione. Numerosi gli appelli in esso contenuti: ai sacerdoti, perché siano fedeli nel celibato, nella castità e nel distacco dai beni materiali. Ai fedeli laici, “ambasciatori di Dio”, perché permettano alla fede cristiana di impregnare tutte le dimensioni della loro vita, poiché non ci sono scuse per chi resta ignorante in materia. In quest’ambito, il Messaggio raccomanda la formazione permanente dei laici e l’istituzione di Università Cattoliche.

Un altro appello è rivolto al mondo politico: l’Africa ha bisogno di politici santi che combattano la corruzione e lavorino al bene comune, si legge nel testo. Coloro che non sono formati alla fede, si convertano o abbandonino la scena pubblica per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica.

Il Messaggio chiama poi in causa le famiglie cattoliche, mettendole in guardia dalle ideologie così dette “moderne” e chiedendo ai governi di sostenerle nella lotta alla povertà, perché una nazione che distrugge la famiglia agisce contro i propri interessi.

Quindi, i Padri Sinodali guardano alle donne e agli uomini cattolici: le prime vengono definite “la spina dorsale” delle Chiese locali; per loro si auspica una promozione maggiore a livello sociale e vengono invitate a non divenire ostaggio di ideologie straniere “tossiche” sul genere e la sessualità. Al contempo, il Messaggio chiama gli uomini cattolici ad essere mariti e padri responsabili, a difendere la vita sin dal concepimento e ad educare i figli.

Poi, l’appello ai giovani e ai bambini, presente e futuro dell’Africa, in cui il 60% della popolazione ha meno di 25 anni. Per entrambi, si raccomanda un apostolato attento, che li tenga lontani dalle sètte e dalle violenze.

E ancora, il Messaggio si rivolge alla comunità internazionale, perché tratti l’Africa con rispetto e dignità, cambi le regole del gioco economico e del debito estero africano, fermi lo sfruttamento delle multinazionali, che distrugge le tante ricorse naturali dell’Africa, non nasconda, dietro gli aiuti, altre intenzioni svantaggiose per gli africani.

Quindi, il Messaggio finale si sofferma sul problema dell’Aids: la Chiesa non è seconda a nessuno nella lotta contro il virus Hiv e nella cura dei malati, si legge. In accordo con Benedetto XVI, definito “amico autentico dell’Africa e degli africani”, i Padri sinodali ribadiscono che la questione non sarà risolta con la distribuzione di profilattici, e sottolineano il successo ottenuto invece dalla castità e dalla fedeltà.

Poi, il documento ribadisce l’importanza del dialogo con le religioni tradizionali, in ambito ecumenico ed interreligioso, in particolare con i musulmani: il dialogo è possibile, si legge nel Messaggio, ma è importante dire no al fanatismo, assicurare il rispetto reciproco e sottolineare che la libertà religiosa è un diritto umano fondamentale e include la libertà di condividere e proporre, non di imporre, la propria fede.

Tra gli altri temi trattati dal Messaggio, l’importanza del Sacramento della Riconciliazione e di programmi diocesani sulla pace, lo stop alla pratica della vendetta, il rafforzamento dei legami con le antiche Chiese di Etiopia e di Egitto e tra l’Africa e gli altri continenti, il ringraziamento ai missionari, la necessità di sostenere i migranti e i rifugiati nel mondo perché l’accoglienza è un dovere.

Infine, l’esortazione a sostenere il Secam (Simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar) che ha compiuto 40 anni di attività, e a moltiplicare gli sforzi nella comunicazione sociale della Chiesa. Un esempio su tutti: la potenza della radio. In Africa, quelle cattoliche sono passate da 15 a 163 nel giro di 15 anni, dati da non sottovalutare in un mondo “pieno di contraddizioni e di crisi profonde”, in cui l’Africa fa notizia solo in caso negativo.

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S_Daniele
00venerdì 23 ottobre 2009 19:30
Africa/ Card. Napier: A media di Sinodo interessa solo condom

"Le cose spirituali, le cose religiose non vengono riportate"


I mass media hanno trattato distrattamente il sinodo sull'Africa in corso in Vaticano, secondo il cardinale Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban.
"Alcuni mezzi di comunicazione sociale riportano soltanto aspetti negativi", afferma il porporato sudafricano in un'intervista all''Osservatore romano'.
"Anche quando parlano della Chiesa ne parlano con toni negativi. Mi riferisco soprattutto a quando si parla dell'Hiv e dell'Aids. Penso in particolare a quei media che attribuiscono alle indicazioni della Chiesa contrarie all'uso dei preservativi il mancato successo della lotta contro l'Aids.
Non riconoscono l'impegno della Chiesa nell'opera di prevenzione e nell'assistenza a chi soffre". Per Napier, lo spazio che i mass media hanno dedicato al Sinodo "è stato molto poco.
In Sud Africa solo un giornale, peraltro quello cattolico, si è occupato del Sinodo. In altre parti dell'Africa se ne parla solo se ci sono stazioni radiofoniche cattoliche. Prendiamo l'esempio del Sud Africa: abbiamo un'emittente radiofonica, 'Radio Veritas', gestita da un padre domenicano: è l'unica che sta seguendo il Sinodo con molta attenzione. Per quanto riguarda il resto della stampa non credo stia facendo molto. Le cose spirituali, le cose religiose non vengono riportate, a meno - conclude Napier - che non si tratti di questioni controverse. Allora sì che le pubblicano!".

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